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Iran-Usa, qualcuno ha provato a far saltare i negoziati in Etiopia?

Secondo gli Stati Uniti, gli iraniani cercavano di colpire gli Emirati Arabi – e Israele – in Etiopia. Il rischio che la crisi del Tigray si porti dietro la destabilizzazione della sicurezza, e soprattutto la volontà di alcuni a Teheran di delegittimare il tentativo di dialogo lanciato dall’amministrazione Biden

Secondo la direttrice del comparto intelligence dell’AfriCom, Heidi Berg, l’Iran stava cercando di organizzare attacchi terroristici in Etiopia (e forse in altri Paesi dell’Africa) contro obiettivi legati a Emirati Arabi, Israele e Stati Uniti – ossia l’asse che si è prodotto dopo la firma degli Accordi di Abramo, l’intesa per la normalizzazione diplomatica tra Abu Dhabi e Tel Aviv, mediata da Washington usando anche l’inimicizia verso Teheran come catalizzatore.

Si parla di un’episodio preciso. A inizio febbraio le autorità etiopiche hanno annunciato di aver arrestato 15 persone perché stavano organizzando un attacco all’ambasciata emiratina di Addis Abeba. Una sedicesima, tale Ahmed Ismail, fu poi catturata in Svezia: era considerato la mente del piano. Ora Berg – e funzionari anonimi da Usa e Israele – dichiarano che quella catturata dal contro-spionaggio etiope era una cellula iraniana inviata ad Addis Abeba dall’autunno scorso.

Il compito del gruppo era di raccogliere informazioni su soft target non solo emiratini, ma anche americani e israeliani. L’obiettivo era sfruttare il contesto caotico di un’Etiopia impegnata nella crisi del Tigray per colpire obiettivi di alto livello dei tre Paesi rivali. Un modo per vendicare l’uccisione dello scienziato nucleare Moshe Fakhrizadeh e del leader del Pasdaran Qassem Soleimani, per mano israeliana e americana; ma anche un modo per complicare la strada a un futuro dialogo.

L’amministrazione Biden ha infatti espresso la volontà di tornare al tavolo negoziale con la Repubblica islamica – sebbene, come fa notare su queste colonne notare Aniseh Bassiri Tabrizi (Rusi) potrebbe non essere una priorità assoluta e Washington sta ancora pensando a come farlo. D’altra parte, mentre una linea pragmatica è trasversale tra conservatori e riformisti, in Iran c’è una fazione politica interna che ha convenienza nel mantenere l’ingaggio con gli Usa, come ha spiegato Nicola Pedde (Igs), e per questo cerca di remare contro con ogni metodo possibile.

L’attacco contro un’ambasciata amica degli Usa, o degli Usa, sarebbe un modo perfetto per intralciare la strada a futuri, eventuali negoziati. “Queste sono accuse infondate provocate solo dai media maligni del regime sionista”, replica una portavoce dell’ambasciata iraniana ad Addis Abeba: “Né l’Etiopia né gli Emirati hanno detto nulla sull’interferenza iraniana in queste questioni”. L’Etiopia in effetti non ha commentato la notizia per ora, ma Addis Abeba, capitale diplomatica dell’Africa e sede degli uffici dell’Unione africana, di solito evita di mettersi in posizioni scomode.

Tanto più adesso, con la crisi del Tigray ancora in corso e con il primo ministro Abiy Ahmed che ha avuto aiuti militari sia dagli Emirati – che avevano già aiutato a mediare la pace con l’Eritrea due anni fa – che da Israele. Però sono uscite notizie sulla possibilità che un secondo gruppo stesse organizzandosi per colpire l’ambasciata emiratina di Khartoum, in Sudan, e a settembre informazioni su una cellula iraniana – probabilmente delle unità per operazioni esterne Quds Force, un tempo guidata da Soleimani – stesse organizzando di uccidere l’ambasciatore americano in Sud Africa (la notizia fu data da Politico in esclusiva).

Sono effetti incrociati. Da una parte c’è il rischio di sicurezza che la crisi del Tigray si sapeva che può produrre, dipanandosi in un ambito geostrategico – il Corno d’Africa – in cui si snodano diversi interessi internazionali (tra cui anche quelli dell’Italia, come su queste colonne ricordato dalla viceministra Emanuela Del Re, che ha anche sottolineato come la guerra abbia prodotto un contesto regionale delicatissimo e una crisi umanitaria).

Dall’altra la distrazione della guerra, la complicazione della crisi, creano un contesto in cui l’attenzione è altrove e i bersagli possono diventare relativamente più facili. In più la questione dei contatti con l’Iran, con gli attori aggressivi, sia interni a Teheran che alle altre cancellerie coinvolte, che vogliono evitare la ricomposizione di un clima negoziale per proteggere i rispettivi interessi. In quest’ottica valgono sia i tentativi di attacco da un lato, sia la massimizzazione mediatica della notizia dall’altro, in cui l’azione di cellule potenzialmente deviate dell’apparato iraniano viene ricollegata all’intera postura statuale.

Come dimostra l’interessamento del Mossad – il direttore, Yossi Cohen, è stato in Etiopia a novembre 2020 – l’Africa è comunque stata già più volte teatro di tentativi di attacchi e di azioni riuscite anche clamorose. Per citarne alcuni: nel 2012 furono arrestati in Kenya due Pasdaran con una ventina di chili di tritolo, nel 2016 sempre in Kenya altri due iraniani erano stati fermati con in mano video dell’ambasciata israeliana. A novembre l’intelligence di Cohen ha eliminato un leader di alto livello di al Qaeda che viveva protetto a Teheran: era considerato il mastermind dietro agli enormi attentati degli anni Novanta contro le ambasciate americane di Kenya e Tanzania.

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