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Biden tra cattolicesimo e costituzione. La lezione di Murray e la versione di Ceccanti

Di Stefano Ceccanti
Murray

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione che il costituzionalista e deputato Pd Stefano Ceccanti ha scritto al libro dal titolo “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano” di John Courtney Murray edito da Morcelliana

Pubblichiamo un estratto dell’introduzione che il costituzionalista e deputato Pd Stefano Ceccanti ha scritto al libro dal titolo “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni cattoliche sul principio americano” di John Courtney Murray edito da Morcelliana.

Nel 1960, accompagnando l’ascesa alla Presidenza del primo cattolico, John Kennedy, sospetto in vasti settori dell’opinione pubblica protestante perché la Chiesa cattolica sembrava limitarne l’autonomia, il padre gesuita John Courtney Murray pubblicò We Hold These Truths – Catholic Reflections on the American Proposition, la raccolta dei propri scritti. In essa, a partire dal diritto costituzionale americano, proponeva di assumere pienamente la libertà religiosa come principio da valorizzare e non come male da tollerare. Kennedy si ispirò a Murray anche in un celebre discorso a Houston di quello stesso anno che ebbe particolare risonanza politica ed ecclesiale, anche ad anni di distanza. La prima apparizione italiana del testo (Morcelliana, 1965) intendeva accompagnare i lavori del Concilio Vaticano II ed in effetti ebbe un’influenza decisiva sulla Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae anche grazie ai rapporti di lunga data dell’autore con Paolo VI. Oggi, in concomitanza con l’ascesa alla Presidenza di Joe Biden, secondo cattolico dopo Kennedy, ha visto la luce questa nuova edizione.

Il 7 dicembre del 1965 veniva promulgata la Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. Un punto di svolta, di obiettivo cambio di paradigma, nonostante alcuni tentativi (allora e in seguito) di sminuirne la portata, anche se lo scisma lefebvriano è avvenuto utilizzando proprio tale cambio come argomento principale. Una svolta che non sarebbe stata possibile senza l’irruzione nella
Chiesa cattolica del diritto costituzionale americano, di un approccio alla libertà religiosa che partiva da una visione storica induttiva e dalla valenza primariamente giuridica e costituzionale del concetto, come ha ben chiarito Silvia Scatena nella sua monografia del 2003.

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità”, recita la Dichiarazione di Indipendenza e richiamandosi appunto a questa frase il padre gesuita John Courtney Murray aveva pubblicato nel 1960 la raccolta di saggi dal titolo “We Hold These Truths. Catholic Reflections on the American Proposition”.

Ovviamente questa irruzione era possibile perché come dimostra Murray il costituzionalismo americano era in larga parte il prodotto di una certa impostazione di Locke che a sua volta si ispirava a S. Agostino e a S. Tommaso, in un rapporto quindi circolare tra ispirazione religiosa ed esperienze storiche. Il caso americano era comunque riconducibile alla tradizione cristiana di cui si recuperavano alcuni filoni storici precedenti all’ordine seguito alla pace di Westfalia e all’affermazione degli Stati sovrani.

Proprio il 1960 era un anno non casuale, perché si trattava di accompagnare una cruciale elezione presidenziale in cui per la prima volta un cattolico, John F. Kennedy, aveva la concreta possibilità di essere eletto. Ed era contestato perché, da cattolico, secondo alcuni suoi critici protestanti, non avrebbe poi potuto, una volta Presidente, rispettare le istanze di libertà religiosa – che la Chiesa storicamente condannava – e non avrebbe goduto di reale autonomia dalla gerarchia ecclesiastica cattolica – che gli avrebbe imposto una sorta di mandato imperativo. Il testo di Murray viene poi non casualmente tradotto in italiano nel 1965, nell’anno chiave del confronto in sede conciliare, da Morcelliana, editrice montiniana, col titolo Noi crediamo in queste verità.

In altri termini l’edizione originale accompagna un’elezione presidenziale, la traduzione accompagna l’evoluzione conciliare.

Il libro, presentato con enfasi da Morcelliana come il contributo di “un perito al Concilio” pubblicato nel “giusto tempo perché è giunto il modello nel dialogo”, si presenta già di per sé rivoluzionario nel titolo, utilizzando al plurale, sulla scia della Dichiarazione di Indipendenza, il termine “verità”, anche se in quel caso, come del resto in Murray, l’intento non era rivoluzionario giacché essa introduceva un elenco di proposizioni, ciascuna delle quali era una verità al singolare collegata alle altre. In ogni caso l’impatto del plurale nel titolo di Murray dava un tono diverso rispetto alla dottrina ufficiale. Se andiamo infatti al celebre passaggio dell’Enciclica Mirari Vos di Gregorio XVI di condanna della libertà di coscienza, uno dei perni era appunto l’uso del concetto di verità al singolare:

«Tolto infatti ogni freno che tenga nelle vie della verità gli uomini già diretti al precipizio per la natura inclinata al male, potremmo dire con verità essersi aperto il “pozzo d’abisso” (Ap 9,3), dal quale San Giovanni vide salire tal fumo che il sole ne rimase oscurato, uscendone locuste innumerabili a devastare la terra».

Sulla sua scia e del successivo Sillabo di Pio IX, allegato all’enciclica Quanta cura, l’ambito delle riflessioni dottrinarie era centrato sull’idea che solo la Verità, sempre intesa al singolare, avesse diritti: tesi che era uno dei perni del celebre intervento del cardinal Alfredo Ottaviani all’ateneo Lateranense il 2 marzo 1953, poche settimane dopo essere stato elevato alla porpora e nominato pro segretario della Congregazione del Santo Uffizio, con critiche esplicite a Murray e Maritain.

La prefazione di Murray dà il senso complessivo degli scritti e si sofferma sulla valutazione da dare al pluralismo americano. Mentre la Chiesa sul Continente europeo aveva vissuto in modo negativo la cesura con l’Ancien Regime, la rottura rivoluzionaria era quindi apparsa
come una disgregazione con la pretesa di rifondare una nuova unità omogenea alternativa, viceversa nel caso americano il pluralismo
è costitutivo:

«il pluralismo si presentava come la condizione naturale su cui nacque la società americana, e non fu, come in Europa ed in Inghilterra, il risultato della frattura e del decadimento di precedenti situazioni di unità religiosa».

Ciò si è tradotto nell’approvazione del I emendamento, che tiene insieme il rifiuto di una religione di Stato e del non impedimento della libertà di produrre opere di ispirazione religiosa (politiche, economiche, sanitarie, scientifiche), le cosiddette clausole del “no establishment” e del “free exercise”, ossia la separazione istituzionale tra Stato e Chiesa e la libertà di professare la propria fede religiosa in pubblico.

Murray chiarisce puntualmente il principio del “no establishment” nel primo capitolo, spiegando:

“Il principio per cui lo Stato è separato dalla società e limitato nei suoi compiti verso la società”.

Per la precisione, per capire meglio il pensiero di Murray, va segnalato che negli Stati Uniti il pluralismo, consacrato nel motto “E Pluribus unum”, permea il patto costituzionale non solo in termini di diversità delle scelte religiose delle singole persone ma, all’epoca della stesura del I emendamento, anche come scelte delle singole ex colonie. Negli anni in cui si creava la Federazione e poi si approvava il Bill of Rights la concezione dei rapporti tra amministrazione federale e Chiese non era monolitica ed uniforme. La separazione tra Stato e Chiesa veniva inserita nel I emendamento, anche perché necessaria e funzionale ad assicurare che nessuna visione particolare delle relazioni Stato-Chiesa in vigore nei singoli Stati potesse affermarsi a livello federale a detrimento delle (diverse) concezioni statali. Successivamente, solo con il XIV emendamento del 1868 si stabilì che il I Emendamento giungesse a tutelare i cittadini anche dai singoli Stati.

[…] C’è da chiedersi: la valorizzazione del pluralismo che portava Murray ad intitolare il suo libro usando la parola verità al plurale, sulla scia della Dichiarazione di Indipendenza e l’ottimismo teologico che pervade l’inizio della Dignitatis Humanae hanno un valore storicamente contingente o invece mantengono fermo il loro valore di stella fissa per la società e per la Chiesa? Rileggere Murray aiuta a convincersi di questa seconda opzione.

Senza Murray sarebbe stato impossibile superare il doppio standard a cui conduceva la tesi dello Stato cristiano (confessionalismo dove si era maggioritari e richiesta di libertà dove minoritari), rivendicata esplicitamente dal cardinal Ottaviani nel già citato discorso del 1953 («Ci si obietta: voi sostenete due criteri o norme d’azione diverse, secondo che vi fa comodo… Ebbene, appunto due pesi e due misure sono da usarsi: l’uno per la verità, l’altro per l’errore») e che esponeva Kennedy all’accusa di volere un’egemonia cattolica nel caso di vittoria e, quindi, sarebbe stato impossibile scrivere limpidamente nell’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco: “Come cristiani chiediamo che, nei Paesi in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza”.

Chissà che le idee di Murray, nel momento in cui il cattolico Joe Biden si insedia alla Presidenza della più importante democrazia consolidata del mondo, non siano anche stavolta di ispirazione per accompagnare le evoluzioni della Chiesa cattolica, della società e della politica, negli USA e altrove, dopo tante incomprensioni e rigidità del periodo precedente.

 

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