I ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica decidono di aumentare la presenza in Iraq. Addestrare le truppe locali nel contrasto al terrorismo è l’obiettivo formale, mentre analizzando gli intenti si può intravvedere la necessità di bilanciare la presenza iraniana nel Paese e quello di coinvolgere la Turchia su obiettivi comuni bloccando parte dell’avventurismo di Ankara
La due giorni ministeriale della Nato si è conclusa con una decisone congiunta interessante: i ministri della Difesa dell’alleanza hanno scelto di aumentare il numero del personale dispiegato in Iraq della missione NMI. La decisione è coordinata con il governo di Baghdad, che ha chiesto assistenza agli europei per addestrare le truppe locali. Dal parlamento si sono alzate voci critiche di chi ha ricordato che l’assise ha già chiesto l’espulsione delle forze straniere dal paese e dunque si tratta di una mossa contro la volontà del popolo.
La notizia è di valore perché è in apparente controtendenza rispetto al trend che dall’amministrazione Obama (salvo poi essere invertito a causa dell’insorgere del Califfato baghdadista) e continuato fino agli ultimi giorni di presidenza Trump. Ma l’aspetto centrale della decisone si specchia con ogni probabilità su Washington.
L’annuncio in effetti sembra un’accettazione del disimpegno americano dal palcoscenico mediorientale e un contemporaneo aumento del coinvolgimento della Nato in quanto tale (ossia l’Alleanza, Usa a parte). Da notare che nel mini-surge composto da 3500 nuovi soldati che porteranno l’effettivo del contingente a 4000 operativi non sono previsti statunitensi.
Una missione Nato, che coinvolge militari Gran Bretagna, Turchia e Danimarca ed è sotto comando danese, è vista come più accettabile per gli iracheni rispetto una dei militari americani, hanno detto “diplomatici” a Reuters. Il peso della guerra del 2003 (“l’invasione” per gli iracheni) è ancora presente nel paese e adesso che la necessità di combattere l’Is è fuori dalla fase d’emergenza certe sensibilità vanno tenute in massima considerazione.
Tanto più se attorno alla presenza militare americana si è creato un problema di sicurezza. Le forze statunitensi, che come quelle Nato partecipano ad attività di addestramento definite in gergo tecnico “capacity building”, sono state più volte oggetto di attacchi da parte delle milizie irachene. Si tratta di azioni compiute da unità paramilitari collegate ai principali partiti politici sciiti che condizionano la vita nel paese (muovendosi in un modo simile a una mafia).
Queste unità sono collegate su più livelli all’Iran, e hanno già usato il contesto iracheno come campo di battaglia proxy contro gli Stati Uniti. Tensioni che sono via cresciute dopo l’uscita statunitense dall’accordo sul nucleare iracheno Jcpoa e sfociate più volte in attacchi contro l’ambasciata Usa di Baghdad o a quello recente contro l’aeroporto di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno dove sono acquartierate unità della coalizione CJTFOIR che combatte l’Is. L’attacco a Erbil è stato rivendicato da una milizia che si fa chiamare Awliya al-Dam, collegata alla più nota Asa’ib Ahl al-Haq (la famigerata Lega dei Giusti, famosa per i tanti attenti compiuti contro le forze occidentali durante la guerra d’occupazione).
L’aumento della presenza Nato in Iraq è dunque solo in parte focalizzata ad addestrare le truppe locali al contrasto delle sacche insorgenti baghdadiste rimaste a vivere in clandestinità nelle aree dell’Anbar o tra Mosul e Kirkuk. L’obbiettivo è anche creare un riequilibrio di forza con l’Iran da sviluppare attraverso il consolidamento delle forze armate regolari e la costruzione di strutture statuali indipendenti dall’influenza iraniana.
C’è un ulteriore intento strategico pensato da Washington e riguarda la Turchia e il contenimento delle sue ambizioni regionali, che si snodano anche in e dall’Iraq. Includere Ankara nell’aumento sensibile della forza Nato serve a tenere i turchi agganciati a obiettivi comuni e meno coinvolti in quelli personali. Nei giorni scorsi indicazioni ulteriori sulla necessità di attivare questo contenimento sono usciti direttamente da Recep Tayyp Erdogan, che ha accusato gli americani di essere responsabili (indiretti) della morte di 13 turchi uccisi mentre erano detenuti dal Pkk. Erdogan ha respinto il commiato di Washington e ha incolpato gli Stati Uniti di dare sostegno al Pkk (a causa della cooperazione nella lotta all’Is con i cugini siriani dei curdi turchi, mentre Ankara dà la caccia a entrambi a cavallo di Siria e Iraq).
(Foto: Twitter, @IraqNato)