I Pasdaran portano avanti la loro opposizione al governo Rouhani anche mobilitando le milizie regionali per compiere attacchi e far ricadere le responsabilità indirette sull’Iran e complicare ogni forma di dialogo
I Pasdaran nel mese di febbraio hanno dato una dimostrazione delle capacità operative tecniche e tattiche, andando a destabilizzare con azioni di varia intensità diversi fronti della regione mediorientale, per complicare il già difficile percorso verso il dialogo con l’Iran.
I tentacoli dei Guardiani della rivoluzione iraniana si allungano su diversi teatri, dallo Yemen al Golfo dell’Oman risalendo per l’Iraq verso la Siria e il Libano. Il gruppo è una realtà complessa con all’interno posizioni diverse.
Una fazione, insieme alle proprie connessioni politiche, ha estremo interesse nel continuare nella regione un costante ingaggio muscolare a media intensità e tenere il paese isolato dall’Occidente. È un modo per far fruttare i propri legami col mondo dell’industria militare, accettato dal gruppo perché crea un filone ideologico narrativo da trasformare in consensi a Teheran.
I Pasdaran assistono (in varie forme: economica, militare, tecnica, ideologica, politica) le milizie sciite nella regione. Demiurgo della costruzione della costellazione di partiti armati nella regione come proxy d’influenza geopolitica, il gruppo militare comandato dalla Guida suprema sfrutta questi tentacoli regionali per le proprie azioni, interessi, obiettivi. Nelle complessità iraniane questo è in parte accettato perché permette di negare responsabilità dirette e sollecitare punti di pressione.
Le azioni dei Pasdaran si contrappongono al braccio di ferro diplomatico in corso tra Iran (inteso come il governo pragmatico-riformista) e gli Stati Uniti per la ricomposizione dell’accordo sul nucleare — che permettere la riqualificazione internazionale del paese con collegati benefici economici.
Larga parte dei Guardiani vi si oppone, sovranisti e ideologicamente nemici dell’Occidente non vogliono trattare con il “Grande Satana” (come chiamano gli Usa da oltre quarant’anni). Sebbene non si esclude una componente interna pragmatica, quella che prevale nelle azioni è invece la più radicale, che cerca un moderato confronto militare costante (non una guerra, ma azioni di disturbo carsiche per fiaccare il nemico).
Esempi allora dall’ultimo mese. Una salva di missili di piccolo calibro ha colpito una base della Coalizione internazionale anti-Is a Erbil; un’altra, più limitata, la Balad Air Base fuori Baghdad. Tre razzi Katyusha hanno colpito (ancora) l’area dell’ambasciata Usa in Iraq. Questi primi tre attacchi hanno prodotto la reazione americana: gli Usa hanno bombardato le milizie filo-iraniane al confine del Siraq. Ancora: droni esplosivi hanno centrato un aereo sulla pista dell’aeroporto di Abha, in Arabia Saudita. Almeno due missili balistici sono stati intercettati dai Patriot sopra Riad. A Marib, nello Yemen, gli Houthi hanno lanciato un nuovo assalto. Un cargo israeliano è stato colpito da un razzo nel Golfo dell’Oman.
Le azioni sono state condotte direttamente dalle milizie secondo le ricostruzioni diffuse, ma ormai diversi paesi (come Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti) ritengono l’Iran responsabile. Il problema che a Teheran il sistema interno è molto complesso, e controllare i gruppi è quasi impossibile per il governo. Anzi, certi attacchi sono appunto una forma estrema di opposizione politica interna.