Intel ha annunciato l’apertura di due nuovi impianti di produzione nel suo complesso in Arizona. Gli investimenti, parte di un nuovo business plan, sono orientati a sostenere la capacità domestica e la leadership tecnologica degli Stati Uniti. Per rispondere a una duplice sfida: alla crisi del mercato e alla competizione globale
Nella giornata di ieri il Ceo di Intel, Pat Gelsinger, ha annunciato un nuovo business plan per rilanciare la manifattura, il design e la vendita di prodotti all’avanguardia nel campo dei semiconduttori.
Il piano, presentato durante un webcast dal titolo “Intel Unleashed: Engineering the Future”, prevede una significativa espansione dell’attuale modello di business. Lo stock di Intel sui mercati è cresciuto del 5% in seguito all’annuncio da parte dell’azienda.
In un anno nefasto, segnato dalla feroce competizione con la taiwanese Tsmc e Samsung e dalla difficoltà di mettere a punto i piani per la produzione di microchip da 10 nanometri, oltre al contesto geopolitico che ha messo pressione su questa importante industria tecnologica, Intel rilancia con “IDM 2.O”.
“Stiamo dettando la direzione per una nuova era di innovazione e leadership sul prodotto qui a Intel”, ha dichiarato Gelsinger nel descrivere “la formula vincente” del suo piano.
Secondo la visione del Ceo, l’azienda si proporrà di lavorare parallelamente su software, silicio e piattaforme, processi di distribuzione, supportata da nuovi impianti di proprietà. Una strategia trilaterale che vuole rilanciare la capacità produttiva interna dell’azienda, proseguendo con il piano per i chip da 7 nanometri e utilizzando tecnologie all’avanguardia, dall’uso della litografia ultravioletta al packaging mirato. È infatti prevista la costruzione di due nuove foundry nel quartier generale a Ocotillo, per un investimento complessivo di 20 miliardi di dollari all’interno del nuovo segmento di business Intel Foundry Service (IFS) guidato da Randhir Thakur.
Con questo nuovo modello, Intel intende puntare sul suo know-how per aumentare la capacità di produzione, anche per conti di terzi che non possiedono asset produttivi (ovvero le cosiddette aziende fabless, come Qualcomm e Nvidia), e così intercettare la domanda europea e asiatica destinata a esplodere nei prossimi anni con il crescere della pervasività della tecnologia. L’obiettivo è produrre la maggior parte dei prodotti dal 2023 in poi, internamente. Un segmento, quello della produzione di chip, che entro il 2025 potrebbe valere da solo 100 miliardi di dollari.
Non solo. Grazie al passaggio a design modulari che consentono di suddividere la produzione di singole parti interconnesse, Intel potrà scegliere quali componenti produrre internamente e quali altre commissionare a partner consolidati come Globalfoundries e Tsmc, attraverso una maggiore standardizzazione degli stadi produttivi.
Intel, come Samsung e l’italo-francese STMeletronics, già presentava un modello di produzione integrato, dal design alla fabbricazione in loco dei loro chip all’avanguardia, che per lungo tempo è rimasto dominante prima della progressiva scomposizione dell’industria in una lunga catena del valore globale.
La globalizzazione del settore ha infatti consentito di abbattere i costi, creare economie di scala e così finanziare quegli investimenti necessari per stare al passo della Legge di Moore, fondatore della stessa Intel: nel 1965, Gordon Moore predisse che il numero di transistor per wafer al silicio, ovvero le singole unità che compongono i chip, sarebbe raddoppiato ogni 18 mesi. Quel tasso di innovazione ha reso possibile la creazione di semiconduttori sempre più potenti e ridotti nelle dimensioni, dando vita alla tecnologia che conosciamo.
I microchip, definiti dai tecnologi e dagli economisti come una general purpose technology (GPT), sono asset ormai fondamentali per quasi ogni aspetto della modernità. Dai tablet agli smartphone, fino all’AI e al quantum computing passando per l’automotive, l’aerospazio, il 5G e la Difesa.
Non è un caso che la leadership in questo settore rappresenterà sempre di più uno dei fronti d’attrito nell’attuale competizione tecnologica. Nel 2020, durante la guerra tecno-commerciale tra USA e Cina, l’amministrazione Trump aveva deciso di bloccare l’export di tecnologie sensibili e vietare la vendita di software americano per la produzione di chip a Pechino. Huawei, con la sua divisione di chip Hisilicon e SMIC sono stati tra i principali target del dipartimento del Commercio. Anche l’Unione Europea lo scorso mese ha annunciato un accordo tra 19 Stati membri per investire congiuntamente nello sviluppo di processori e chip, per chiudere il crescente gap tecnologica con l’Asia e gli Stati Uniti e che ha visto un passo avanti ieri con l’intesa tra il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, e la controparte francese su Stm.
Secondo uno studio congiunto pubblicato a settembre 2020 dalla Semiconductor Industry Association (SIA) e l’agenzia Boston Consulting Group, le compagnie americane raccolgono il 48% delle vendite globali, ma gli stabilimenti negli Usa contano solo per il 12% nella produzione mondiale (una decrescita significativa dal 37% di trent’anni prima) con solo il 9% dell’output proveniente da aziende controllate dagli Stati Uniti.
L’annuncio di Intel, dunque, si accoda ad una duplice preoccupazione: da una parte, la crescente domanda globale di chip dai numerosi settori fatica a trascinare un’offerta che ha visto il blocco della produzione in seguito alla crisi pandemica, mettendo in ginocchio alcuni settori come quello automobilistico e l’elettronica di svago. Dall’altra, il rischio che questa fetta di mercato concentrata in Asia con quasi l’80% della capacità produttiva – con Tsmc e Taiwan che rappresentano un pericoloso single point of failure nella catena del valore di molte aziende – condanni gli Stati Uniti (e non ultimo l’Europa) fuori dal ciclo innovativo. Con evidenti implicazioni per la sicurezza nazionale.
Il governo e i legislatori americani erano però già corsi ai ripari. Dapprima con il passaggio all’inizio del 2021 del CHIPS for America Act, introdotto lo scorso anno e approvato all’interno del National Defense Authorization Act (NDAA). Un provvedimento bipartisan fortemente voluto, che istruisce il Dipartimento del Commercio a prevedere un programma di incentivi da 3 miliardi di dollari in prestiti federali per favorire qualunque progetto coinvolto nella produzione di microchip, e il Pentagono ad uno schema simile per componenti elettroniche utili alla Difesa.
Un’iniziativa che, combinata alla revisione delle supply chain critiche ordinata dal presidente Joe Biden lo scorso mese, incontrava i favori della stessa azienda americana, dal momento che i due provvedimenti si rivelavano utili “a livellare la competizione globale per la leadership nei semiconduttori, consentendo alle aziende americane di competere a parità di condizioni con compagnie estere fortemente sussidiate dai loro governi” [n.d. la Cina] che, stante le stime di Intel, inducono i player americani a patire uno svantaggio sui costi di produzione tra il 25 e il 50%.
“Combattere la penuria di chip e investire nella tecnologia di produzione americana” aveva commentato soltanto quattro giorni fa il segretario al Commercio Gina Raimondo, “sarà una mia priorità e non vedo l’ora di lavorare insieme ai leader della SIA”.
Insomma, l’annuncio di Intel rappresenta un chiaro messaggio tanto per accordarsi alle esigenze di sicurezza nazionale enfatizzate dallo shock pandemico e da una rinnovata competizione geopolitica, quanto per non perdere di vista le specifiche di un settore che richiede un’intensa collaborazione con gli altri attori del settore per sostenere il business e l’innovazione.