Il report sull’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi diffuso dagli Stati Uniti incolpa indirettamente – ma pesantemente – l’erede al trono Mohammed bin Salman. Tuttavia Washington non intende spingersi troppo oltre perché non vuole perdere il contatto con un alleato importante come l’Arabia Saudita, spiega Ardemagni (Ispi)
Sul caso Khashoggi, l’amministrazione Biden sembra aver inviato più che un’accusa formale un pesante messaggio a Riad, e non mancano le critiche (sul New York Times per esempio Ben Hubbard scrive che il presidente “si è messo in punta di piedi” per non rompere con un alleato importante). L’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, di fatto non è incolpato direttamente nel report recentemente diffuso dal direttore della National Intelligence: il documento non riporta novità fattuali, sebbene sanzioni diversi alti ranghi della sicurezza saudita dipendenti direttamente da bin Salman (che non risulta tra i sanzionati secondo una prassi con cui Washington non punisce le leadership dei Paesi con cui ha relazioni diplomatiche importanti).
Tuttavia, l’erede non poteva non sapere, è questo il punto centrale sul report. E il tutto si inserisce in una serie di passaggi che indicano un cambiamento in corso nelle relazioni con Riad, che avviene mentre Joe Biden sta cambiando approccio e toni nei confronti dell’Iran rispetto a Donald Trump, sebbene contenere Teheran è l’obiettivo anche di questa amministrazione statunitense, spiega Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata dell’Ispi e cultrice della materia in “Storia dell’Asia Islamica” e “Nuovi Conflitti” all’Università Cattolica di Milano.
”Quindi – continua con Formiche.net Ardemagni – oltreché per tradizionali ragioni di difesa, gli Stati Uniti hanno ancora bisogno dell’alleanza strategica con l’Arabia Saudita nella regione, ed è per questo motivo che è assai improbabile che MbS (acronimo internazionale del principe ereditario, ndr) venga direttamente colpito da sanzioni Usa, anche se sanzionare la Forza di Intervento Rapido della Guardia Reale per il caso Khashoggi equivale ad ammonire la cerchia più stretta del principe ereditario, che è anche ministro della Difesa”.
Per Biden, ricalibrare il rapporto Washington-Riyadh significa – secondo l’esperta di Yemen e monarchie del Golfo – “insistere su temi che Trump aveva volutamente evitato di affrontare (diritti umani, persecuzione di giornalisti e attivisti anche all’estero, vendita di armi, appoggio acritico all’operazione saudita in Yemen), ponendo una nuova enfasi, però, sulla sicurezza regionale, sempre più legata al conflitto tra gli huthi yemeniti e l’Arabia Saudita, che è poi uno dei fronti della guerra in Yemen”.
Proprio su questo tema (gli attacchi huthi contro Riyadh) Ardemagni sottolinea una crescente discontinuità tra Biden e Trump, meno scontata di quella sui diritti umani. “A fronte dell’escalation di attacchi da parte degli huthi, con missili e droni, contro il territorio saudita e obiettivi economico-energetici del regno (Jizan, il porto di Jedda, aeroporti civili, la stessa Riad, a volte il Mar Rosso) – spiega – gli Usa di Biden stanno alzando la voce condannando con forza queste azioni”.
Per esempio, il Consigliere per la Sicurezza nazionale ha promesso a nome degli Stati Uniti di “continuare ad aiutare l’Arabia Saudita a difendere la propria sovranità e integrità territoriale”. “Questo – aggiunge Ardemagni – è anche un modo per rassicurare Riyadh che gli Stati Uniti si interessano ancora alla sicurezza nazionale saudita, messa ora a rischio dallo stesso, fallimentare, intervento militare che i sauditi hanno iniziato in Yemen nel 2015”.
Una posizione che fa notare l’esperta è sostenuta anche dai Paesi dell’E3 europeo (Francia, UK e Germania): “Usa e Ue percepiscono sempre più gli attacchi degli huthi contro il territorio saudita (e a volte il Mar Rosso) come una minaccia alla sicurezza regionale, non solo come un problema dei sauditi”. Insomma, ora che Washington sta recuperando leve politiche nei confronti di Riad, “non è da escludere che queste possano, nel medio-lungo periodo, rafforzare la sicurezza saudita e delle vicine monarchie, per esempio sul tema dei missili e dei droni”.
Quali sono i dossier regionali che più ne risentiranno? “Su tutti, penso che vi sarà un impatto appunto sullo Yemen (più pressione per un cessate il fuoco nazionale, anche se la battaglia per Marib incombe), nonché sulla questione, sempre più spinosa, della proliferazione di missili e droni armati in Medio Oriente, sempre più utilizzati con modalità offensive dalle milizie filo-iraniane (in Libano, Iraq, Siria, Yemen). E nel rapporto Usa-Arabia Saudita, i due temi si intrecciano proprio in Yemen”.
Una notizia importante arrivata negli ultimi giorni dal fronte mediorientale è la telefonata dello sceicco del Qatar Tamim bin Hamad al Thani a bin Salman: cosa c’è dietro a questo contatto insolito con cui il qatarino ha mostrato vicinanza al saudita per la vicenda del report, come fatto anche dalle altre monarchie del Golfo?
“Sono due i fattori: l’unità formalmente ritrovata nel CCG dopo l’Accordo di al-Ula (molto voluto dai sauditi, meno dagli emiratini), e la comune volontà di sigillarsi politicamente, in tema di libertà civili e diritti umani, dai giudizi e dalle pressioni di partner occidentali e media internazionali”, risponde Ardemagni.
Da un punto di vista geopolitico, il Qatar spinge per una distensione tra Riyadh e Teheran perché non può fare a meno dei rapporti con l’Iran; sotto quest’ottica s’è anche proposto come interlocutore con Washington. “D’altronde – continua – dopo al Ula, questo è l’unico modo in cui Doha può tenere insieme il rinnovato rapporto con i sauditi e le alleanze di politica estera che hanno segnato gli anni dell’embargo contro il piccolo emirato (Iran, Turchia, anche Oman) e sulle quali i qatarini intendono continuare a investire. Per ragioni commerciali e militari in primis”.