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Centrale iraniana di Natanz, incidente o attacco cyber israeliano? Ecco lo scenario

Di Gabriele Carrer ed Emanuele Rossi

Blackout al maxi impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, fulcro del programma nucleare iraniano. Per Teheran è “terrorismo nucleare”. È stato un attacco cyber israeliano mentre il capo del Pentagono arrivava nel Paese?

“Terrorismo nucleare”. Ali Akbar Salehi, numero uno dell’Organizzazione dell’energia atomica iraniana, non punta il dito contro nessuno ma definisce l’incidente registrato nella notte l’impianto di arricchimento dell’uranio di Natanz, sito nell’Iran centrale, e fulcro del programma nucleare del Paese. 

Si è trattato di un incidente alla rete elettrica della centrale, che non ha causato né vittime né dispersione di materiale radioattivo, stando a quanto riportano i media iraniani. Le autorità locali sospettano che l’incidente sia stato frutto di “sabotaggio terroristico da parte di infiltrazioni”, così come dichiarato da Malek Shariati, membro della commissione parlamentare sull’Energia.

I media israeliani non hanno molti dubbi: non si è trattato di un incidente ma di un attacco informatico. Alcuni citano intelligence occidentali secondo cui dietro ci sarebbe lo zampino del Mossad. Il danno sarebbe molto più importante di quello che il governo di Teheran sta lasciando credere.

Non è la prima volta che nella centrale di Natanz si registrano “incidenti sospetti” e quest’ultimo caso aumenta la già preesistente tensione e il conflitto tra Israele e Iran. A luglio un’esplosione anomala che secondo le autorità iraniane fu “sabotaggio” da parte di Israele. Senza dimenticare il caso dell’uccisione di Mohsen Fakhrizadeh, scienziato iraniano. che avviarono il programma nucleare militare di Teheran.

Soltanto ieri, proprio nella centrale nucleare di Natanz, il presidente iraniano Hassan Rouhani aveva presenziato all’inaugurazione di 164 nuove centrifughe che avrebbero permesso di arricchire con maggiore velocità l’uranio. Ma l’uso è vietato dall’accordo internazionale del 2015. Rouhani aveva chiarito che “tutte le attività nucleari del Paese procedono unicamente per scopi pacifici e civili”.

La centrale Natanz era già finita nel mirino di Israele e Stati Uniti in passato, con il celebre caso Stuxnet. Fabio Vanorio, dirigente del ministero degli Esteri, ha pubblicato da poco un volume dal titolo “Shadow warfare” per l’Istituto italiano di studi strategici Niccolò Machiavelli. “La preparazione tecnica di Stuxnet (effettuata dalla National Security Agency statunitense insieme ad un’unità militare israeliana Sigint Signal Intelligence, nota come Unit 8200) è durata circa tre anni, necessari per infiltrare con successo il malware nella centrale di Natanz (Iran), controllarne la permeazione ed eseguire, attraverso di esso, azioni specifiche sull’obiettivo”, si legge. “Stuxnet non può quindi essere definito come un’arma di Stati ‘deboli’” ed “evidenzia un punto debole nella questione dell’asimmetria dovuto alla più difficile acquisizione di conoscenza da parte di uno stato debole. Gli stati (o attori) fragili devono superare elevate barriere all’ingresso (dovute ai costi di procurement e di trattamento specialistico) nell’acquisizione di malware che causino danni significativi”.

Come sottolinea l’Associated Press, se fosse Israele ad aver causato il blackout, ciò aumenterebbe le tensioni tra i due Paesi. Ma non soltanto. Complicherebbe gli sforzi degli Stati Uniti, il principale partner per la sicurezza di Israele, per rientrare nell’accordo nucleare. Quando è uscita la notizia del blackout, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin era da poco atterrato in Israele per colloqui con il primo ministro Benjamin Netanyahu e il suo omologo Benny Gantz.

Il segretario alla Difesa statunitense – che sarà anche in Germania, sede di Comando Africa del Pentagono, e in Belgio al quartier generale Nato – è arrivato in Israele per affinare la politica di sicurezza statunitense per la regione. Per una serie di equilibri col mondo arabo, il Comando Centrale che segue il Medio Oriente si trova in Qatar, ma con la normalizzazione delle relazioni tra lo stato ebraico e diversi Paesi della regione (innanzitutto gli Emirati Arabi, grazie agli Accordi di Abramo), Washington intende affidare all’alleato israeliano il ruolo di viceré nella regione — area la cui stabilità è delicata, basta guardare a quanto accaduto in questi giorni in Giordania. Non a caso, Israele è stato recentemente inserito nell’Area of Reposanbility del CentCom.

Anche perché è in discussione la possibilità che agli israeliani sia affidato il compito di fornire protezione aerea a diversi Paesi del Golfo per conto degli Usa. Per esempio in Arabia Saudita, che ha un ruolo troppo importante (protegge i luoghi sacri dell’Islam, per dire) per accettare una rapida normalizzazione, ma che potrebbe ricevere la contraerea Iron Dome per difendere postazioni finora presiediate dai Patriot americani. Washington ha ordinato il ritiro di tre batterie, e ora potrebbe far entrare su suolo saudita (e emiratino) i sistemi israeliani intanto per difendere le proprie basi. Operazione che poi si potrebbe anche allargare, visto le necessità del regno di avere uno scudo aereo per proteggere il proprio territorio martellato dagli yemeniti Houthi.

La visita di diplomazia militare di Austin è il primo incontro a livello di gabinetto operativo tra Stati Uniti e Israele dall’inizio dell’amministrazione Biden — con i primi che stanno riposizionando attenzione e risorse nel contenimento di rivali globali come la Cina, e preoccupazioni correnti come la Russia. Entrambe le rival powers statunitensi hanno visitato la regione visitato la regione recentemente, chiudendo anche accordi roboanti come quello Pechino-Teheran, mente gli Usa stanno rimodulando la loro presenza mediorientale. Israele ha interessi da proteggere su cui chiede il sostengono degli americani sebbene muova relazioni con la Cina. Primo fra tutti l’Iran, nemico esistenziale su cui Tel Aviv vuole conoscere le intenzioni americane mentre screzi (marittimi) hanno fatto alzare il livello di tensione tra i due paesi.

Venerdì 9 aprile è stata aggiornata una riunione del sistema di contatti tra membri dell‘accordo sul nucleare iraniano, Jcpoa, e Stati Uniti. La prima degli ultimi tre anni (ossia da quando l’amministrazione Trump tirò fuori gli Usa dal deal) in cui americani e iraniani si sono parlati, seppur in “formato staffetta” — ossia tramite interlocutori terzi, senza incontri diretti. Poi gli israeliani vogliono garanzia sull’essere i primus inter pares per gli americani: temono che l’idea Usa di allargare le forniture militari di massimo livello ad altri alleati (vedi gli F-35 agli Emirati) possa fargli perdere la posizione di rilievo.

Washington intende piuttosto rafforzare la deterrenza sia in ottica iraniana, sia garantendo a certi Paesi un livello di assistenza alto perché tenerli inclusi nella partnership davanti ai corteggiamenti cinesi e alle offerte russe. In questo, la penetrazione di sistemi militari israeliani nel Golfo sotto garanzia Usa darebbe a Tel Aviv un ulteriore livello di vantaggio. Altre garanzie riguardano la possibilità di continuare la gray-war contro il rafforzamento delle milizie sciite filo-iraniane, come Hezbollah, che i Pasdaran stanno portando avanti da anni sfruttando il caos in Siria e il contesto lasco iracheno — attività contro cui, dal 2013 a oggi, Israele avrebbe condotto circa 1000 attacchi aerei.

Si tratta di equilibri fondamentali, con gli americani che se vogliono orientarsi verso l’Indo-Pacifico devono retrocedere da alcune aree lasciandole in mani fidate. Di più: la capacità di produrre innovazione di livello mondiale di Israele e l’avanguardia su settori come il cyber e l’intelligenza artificiale sono enormi moltiplicatori di forza per gli Stati Uniti in un ventunesimo secolo che sarà in gran parte definito dalla competizione tecnologica con una Cina autoritaria.



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