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Big tech con l’elmetto. Pellegatta (DfrLab) spiega la lotta alla disinformazione

Complice il pressing dei governi, le big tech si sono rimboccate le maniche nella lotta alle fake news. Da Google a Facebook, Anna Pellegatta, Associate Director del Digital Forensic Research Lab (DFRLab) dell’Atlantic Council, spiega la rivoluzione. E il coraggio che serve contro la disinformazione russa e cinese

Eppur si muovono. Dopo tante polemiche le big tech si rimboccano le maniche e pronunciano un sonoro stop alla disinformazione online. È una storia anche italiana quella dell’European Media and Information Fund, l’iniziativa per sostenere il lavoro di ricercatori, fact-checker, organizzazioni no profit e altre organizzazioni d’interesse pubblico che lavorano sulla ricerca sulla disinformazione e sull’alfabetizzazione mediatica, lanciata dalla Calouste Gulbenkian Foundation di Lisbona, Portogallo, e dallo European University Institute di Fiesole.

La notizia vera, di questi giorni, è che un campione tech come Google ha deciso di investire nell’iniziativa un investimento affatto modesto, 25 milioni di euro. Segno che le grandi compagnie digitali hanno deciso di passare dalle parole ai fatti e vogliono dare un contributo, anche finanziario, per disinquinare i mari dell’informazione.

L’annuncio cala dritto al centro di un infervorato dibattito italiano, dopo che Byoblu, noto e frequentato sito online diretto da Claudio Messora, è stato oscurato da YouTube insieme ai suoi 500.000 utenti con l’accusa di diffondere fake news.

Che sia o meno spontaneo non importa, il “risveglio” delle aziende tech è una buona notizia, dice a Formiche.net Anna Pellegatta, Associate Director del Digital Forensic Research Lab (DFRLab), il centro di ricerca sulla disinformazione del think tank americano Atlantic Council.

“Quella del nuovo fondo è solo l’ultima di un ventaglio di iniziative cui stanno contribuendo le big tech negli ultimi anni. Penso a Google, che ha lanciato il “Digital news innovation fund” stanziando 150 milioni a supporto di centinaia di progetti di giornalismo digitale, o a Facebook, che ne ha stanziati 400 per analoghi progetti in giro per il mondo, anche all’indomani della pandemia, o ancora a Microsoft”.

Certo, la messa in moto dei grandi provider non è del tutto disinteressata. “Ovviamente le società tech finanziano questi progetti anche per diminuire la pressione formatasi nei loro confronti per la responsabilità della disinformazione o di contenuti discutibili online, ma sono fiduciosa che investimenti di lungo periodo possano lasciare un segno più e meglio di tante leggi già approvate a livello nazionale ed europeo”.

Il dilemma del legislatore Ue come di quello americano, in fondo, è lo stesso. Questione di tempismo: “Le leggi spesso cercano di tamponare fenomeni, come la disinformazione o il Covid, che evolvono molto più rapidamente della loro approvazione”. Per combattere le fake news, più che un manuale, serve coraggio, da parte dei governi e dei privati. “A livello europeo ci sono state iniziative importanti in questi anni, dal Code of practice on Disinformation all’European democracy action plan”, dice Pellegatta.

Che però avvisa: “Si tende spesso a sopravvalutare il ruolo delle big tech, che certamente hanno la responsabilità di adottare sistemi di business più trasparenti e intransigenti verso la radicalizzazione, ma bisogna anche risalire all’origine del fenomeno”.

Facile a dirsi: l’“attribuzione”, la sorgente delle campagne di disinformazione (vale anche per gli attacchi hacker), è il più grande cruccio del legislatore e delle autorità preposte alla sicurezza.
Qui il confine fra regolamentazione e diplomazia si fa più labile. Come è noto molte delle campagne di fake news sulle piattaforme online hanno una regia statale.

Di certi Stati più di altri, dicono i dati. “Inutile parlare di arginare le influenze straniere senza parlare di diplomazia – osserva l’esperta. Tradotto: quando si hanno le prove, è necessario un esercizio di name and shame. “Qui un plauso va al lavoro del Parlamento europeo negli ultimi due anni, e al suo Special committee sulle interferenze straniere. Così come alla nuova presa di coscienza della Commissione Ue. La vicepresidente, Vera Jurova, presta particolare attenzione al tema dell’attribuzione. E in più di un’occasione ha avuto il coraggio di nominare la fonte di campagne di fake news, Russia e Cina. Siamo sulla giusta strada”.

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