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La Cina vuole riaprire l’ambasciata in Libia. Ecco perché

La Cina guarda alla Libia. Per Pechino il Paese nordafricano è un asset centrale in mezzo al Mediterraneo, in cui entrare nel business della ricostruzione e posizionarsi in un versante strategico per tutta la regione Medio Oriente e Nord Africa

La Cina ha intenzione di riaprire la propria ambasciata in Libia, a Tripoli, e un consolato a Bengasi, segnando un passaggio importante su entrambi i lati del Paese (Tripolitania e Cirenaica) nel processo di stilizzazione in corso. Finora sono poche le postazioni diplomatiche attive, perché diversi Stati non ritengono adeguate le condizioni di sicurezza: Francia e Grecia (in riattivazione questi giorni), Turchia da tempo, e poi l’Italia che non ha mai chiuso la propria ambasciata anche durante le fasi più dure degli ultimi scontri (sintomo anche delle connessioni italo-libiche).

Se la Cina pensa di riaprire le proprie sedi diplomatiche le ragioni possono essere diverse, peraltro sovrapponibili. Pechino ritiene evidentemente più che sufficienti le condizioni di sicurezza (e questo è in generale un fattore positivo), visto che i cinesi non sono disposti al rischio né all’inserirsi in contesti critici, ma prediligono in certi teatri l’approccio armonico che fa da humus al business. Il Partito/Stato potrebbe aver valutato dunque che esistano condizioni propizie.

La presenza delle feluche cinesi potrebbe facilitare i contatti per le aziende del Dragone nel grande giro d’affari messo in moto dalla ricostruzione con cui il nuovo governo Dabaiba pensa di far partire il rilancio economico. Con la Libia che ha bisogno di molto per ripartire e con la Cina che potrebbe essere pronta a fornire assistenza e investimenti, l’accoppiamento di domanda e offerta è fluido. Attività da muovere in forma competitiva con quelle europee, anche italiane.

Potrebbe esserci anche di più: la Cina usa le ambasciate per diffondere la propria retorica e propaganda. È la wolf warrior diplomacy, via aggressiva per la diplomazia, che in Libia potrebbe servire a dare voce al Partito/Stato da un teatro delicato in divenire. Al centro del Mediterraneo, affacciato sulle strutture strategiche Nato siciliane, centro di evoluzioni geopolitiche e di scontri sensibili come quello intra-sunnismo tra Turchia e Emirati (e Arabia Saudita).

Ci sono spazi dunque anche per le attività cinesi. Un esempio: il giornalista Chen Weihua, che guida l’ufficio di Bruxelles del China Daily e che (nel rispetto del suo incarico governativo) polemizza spesso su Twitter attaccando l’Ue, recentemente criticava la visita a Tripoli del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, accusando l’Europa di aver destabilizzato la Libia (nel 2011, la Cina si astenne al CdS Onu criticando l’intervento Nato contro Gheddafi, con cui le relazioni centrate sul piano economico valevano per Pechino 18,8 miliardi dollari e quello libico rappresentava il 3 per cento del petrolio totale che importava).

L’ambasciatore cinese in Libia, Li Zhiguo, dopo un incontro con il vicepresidente dell’autorità esecutiva, Abdullah Al-Lafi, ha detto che il suo Paese vuole riaprire l’ambasciata di Tripoli il prima possibile per “iniziare a lavorare dall’interno del Paese in modo che possa esserci più cooperazione”.

Nell’incontro si è parlato anche della situazione sanitaria legata al Covid nel Paese. Secondo quanto reso noto, il cinese avrebbe parlato di vaccini, vettore geopolitico del periodo, ma intanto è stato anticipato dall’arrivo in Libia delle prime centomila dosi di siero russo Spunik V, fatte atterrare a Tripoli dagli Emirati (una nota a sostegno della stabilizzazione, se si considera che Abu Dhabi ha fornito assistenza alle ambizioni militariste dei ribelli che intendevano rovesciare il precedente governo onusiano). Nello stesso giorno 10 tonnellate di materiale medico-sanitario, tra cui un milione di mascherine e kit d’emergenza sono state inviate a Tripoli dalla Cooperazione italiana.

Sulla scorta del 2011, la Cina ha perseguito in Libia una politica di cauta neutralità e diversificazione diplomatica ed economica pur sostenendo i complicati passaggi di stabilizzazione onusiani. Con il Gna di Fayez Serraj, il governo onusiano che ha preceduto l’attuale, nel 2018 ha stretto la cooperazione per portare la Libia nella Nuova Via della Seta. Firmato un memorandum di intenti sulla Belt and Road Initiative (BRI), Pechino ha ricominciato a spingere gli investimenti libici — ben accolti dal Gna. Contemporaneamente Pechino ha mantenuto relazioni in Cirenaica, sia col (non riconosciuto internazionalmente) governo parallelo sia con il capo ribelle Khalifa Haftar. Collegamenti senza sbilanciamenti.

Val la pena qui sottolineare che mentre i progetti della BRI sono in declino in tutto il mondo, il Medio Oriente e il Nord Africa sono l’unica regione che sta registrando un aumento degli investimenti e dei progetti di costruzione cinesi. Nel 2019, la regione ne è diventata il secondo più grande destinatario, seconda solo all’Europa. La BRI per il Partito/Stato serve per il doppio fine di arricchire la propria economia ed elevare il proprio status geopolitico, e tutto si basa su due necessità: stabilità e sviluppo. Per questo la Cina guarda al complesso teatro libico; per questo la Cina non ha mai scelto un lato sui recenti scontri, spingendo per la stabilizzazione con l’obiettivo di massimizzare la propria presenza.


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