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Il complotto ad Amman è fallito. Così re Abdallah risolverà la crisi

L’immediata ed enorme eco mondiale suscitata dalle notizie sul tentato golpe in Giordania è la migliore conferma della crescita di centralità del Paese, amplificata dall’essere rimasto l’unico stabile dell’area medio-orientale. È in questa importanza che vanno cercati sia gli elementi ispiratori del tentativo di sovvertire l’ordine, sia i motivi del suo fallimento. L’analisi di Igor Pellicciari, Università di Urbino e Luiss Guido Carli

Due orientamenti opposti regolano una delle questioni più dibattute nelle scienze sociali, ovvero il rapporto ideale auspicabile tra ricercatore e oggetto di studio. Uno prescrive che egli mantenga un distacco da ciò che osserva per evitare che un coinvolgimento emotivo finisca con il falsarne percezione e conclusioni. L’altro suggerisce al contrario che egli si cali quanto più possibile nella realtà studiata per poterne cogliere il senso che altrimenti faticherebbe a comprendere da estraneo.

Nell’appello del 14 marzo scorso a sostenere il modello giordano sviluppammo considerazioni oggettive di politica internazionale, seppure mossi nell’occasione da una esperienza soggettiva (lo svolgere un incarico diplomatico presso il Regno Hashemita di Giordania). A meno di un mese di distanza, un commento sull’ “attentato alla stabilità del paese” (nelle parole del vice-premier e ministro degli affari esteri Ayman Safadi)  non può prescindere da entrambe queste prospettive: quella del ricercatore distaccato e quella del diplomatico coinvolto.

Fatta questa doverosa premessa, su quanto accaduto (e trapelato) si possono per ora avanzare alcune osservazioni sia di politica internazionale che interna.

La prima è che l’immediata ed enorme eco mondiale suscitata dalle notizie provenienti dalla Giordania è forse la migliore conferma di quella esponenziale crescita di centralità vissuta dal Paese negli ultimi due decenni, amplificata dall’essere rimasto l’unico stabile dell’area medio-orientale. La seconda è che forse è in questa stessa importanza che vanno cercati sia gli elementi ispiratori del tentativo di sovvertire l’ordine ad Amman, sia i motivi del suo fallimento.

La stabilità giordana ha radicalmente trasformato il Paese, storicamente povero di risorse naturali, aumentandone attrattività geo-politica ed economica. Da semplice territorio di sfogo “temporaneo” della questione palestinese in attesa di una improbabile soluzione, la Giordania è diventata crocevia degli equilibri di tutto il Medio-Oriente, arrivando ad influenzare anche quelli del Golfo.

La cosa iniziò a delinearsi con la guerra in Iraq quando il Paese divenne per anni base logistica prima e poi sempre più centro di orientamento strategico delle principali operazioni multilaterali e bilaterali su Baghdad. La cui presenza si è istituzionalizzata con l’aggiungersi di attività qui decentrate dalla Siria, Yemen, Libano. Di pari passo, Amman è diventata nuova cassaforte per ingentissimi capitali in fuga dai ricordati scenari in crisi.

In una parte minore essi sono stati investiti nel Paese (in particolare nell’immobiliare ad opera di gruppi libanesi come la famiglia Hariri) mentre per il resto hanno creato una ricchezza finanziaria di rendita, parcheggiata in attesa di tempi migliori.

Per inciso, come in tutti gli scenari con un eccesso di stranieri stanziali di lungo periodo (profughi e operatori internazionali), essa ha drogato un’economia locale fatta di servizi che ha aumentato costi, diseguaglianze sociali, corruzione e malcontento nella popolazione locale. Con la Giordania nuovo centro di interesse politico-finanziario non è da escludere che l’idea di un cambio di leadership nel Paese sia partita da fuori, da una delle potenze regionali dell’area.

Tuttavia, la stabilità di Amman è oramai questione che va oltre i confini del Medio Oriente o del Golfo e coinvolge i principali attori internazionali del momento. Il suo mantenimento è uno dei pochi punti su cui, nel corrente dis-ordine mondiale, concordano all’unisono Stati Uniti, Russia, Cina. Considerando il loro forte dispiegamento di intelligence in Giordania (senza dimenticare quella di Israele, che vi ha un’importante presenza diplomatica) si può ipotizzare che da questi ambienti sia partito in anticipo un avvertimento indirizzato al Mukhabarat locale, la cui proverbiale formazione professionale ha beneficiato negli anni dalla stretta collaborazione con lo stesso Mossad.

Una considerazione finale riguarda invece lo sviluppo che ha preso il sistema politico-costituzionale giordano durante il regno di Re Abdallah II. E porta ad ipotizzare che, anche qualora non sventato dai servizi, il complotto ad Amman comunque non sarebbe andato a buon fine. Divenuto Sovrano a sorpresa nel 1999 e sconosciuto ai più, Re Abdallah fu accolto da commenti scettici sulla possibile durata del suo Regno. Alcuni osservatori internazionali ne paragonarono la posizione all’ultimo Scià di Persia, Reza Pahlavi: debole nel carisma, quasi assoluto nelle prerogative sovrane.

In due decenni il Re ha chiaramente sovvertito le aspettative e di fatto invertito il punto di partenza iniziale. Da un lato è riuscito a diventare figura carismatica e popolare anche per avere mantenuto viva la sua vocazione militare che lo ha portato ad essere leader riconosciuto dell’esercito, che rimane insieme all’intelligence uno dei capisaldi della stabilità interna giordana. Dall’altro, la monarchia si è costituzionalizzata in senso parlamentare con un progressivo aumento del legame fiduciario dell’esecutivo rispetto al legislativo e una minore invadenza arbitraria nell’azione di governo sul piano interno da parte del Sovrano, rimasto ad occuparsi in prima persona della cruciale politica estera iniziata dal padre Re Hussein.

Con la parlamentarizzazione della vita politica e una definizione costituzionale più chiara delle prerogative del Sovrano, inevitabilmente hanno perso di importanza ed incidenza i profili e gli eventuali disegni politici dei restanti membri della famiglia reale. Relegati da tempo a ruoli marginali, essi hanno scarsa presa in quelle forze armate fedeli direttamente al Sovrano, in quanto credibile e riconosciuta autorità militare. Non a caso, sventata la crisi, Re Abdallah ha dichiarato di volere risolvere la questione con il Principe Hamzeh “all’interno della famiglia”.

Come a dire, il Regno è superiore a tutto.

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