Emergono i primi dettagli della minimum corporate tax. Le imprese verseranno una quota delle imposte sui profitti direttamente nel Paese dove li generano, grazie a un’operazione che abbraccerà l’intera sfera Ocse. E che serve allo stesso Biden per finanziare i maxi-piani pandemici americani
Un passo alla volta prende corpo la minimum corporate tax immaginata da Janet Yellen e Joe Biden (qui l’intervista all’economista Giampaolo Galli) prende corpo, andandosi a definire nei dettagli. Una sorta di flat tax applicata ai profitti delle grandi imprese generati in Paesi diversi da quelli di residenza, con l’obiettivo dichiarato di mettere sotto pressione quei paradisi fiscali che ogni anno sottraggono entrate importanti e dunque in ultima istanza Pil, alle economie più avanzate. Certo, ci sarà da convincere l’intero G20 e poi l’Ocse, ma con uno sponsor come gli Stati Uniti la strada verso un’imposta che con ogni probabilità andrà a sostituirsi alla web tax è decisamente meno in salita.
In queste ore dalla Casa Bianca sono partiti 135 file destinati ad altrettanti governi in seno all’Ocse (padre della proposta rilanciata da Washington), contenenti i dettagli della proposta americana per una tassa globale sui profitti delle grandi aziende. L’amministrazione Biden, come racconta il Financial Times, mira a un nuovo modello: le multinazionali dovranno ai rispettivi un’imposta calcolata sulla base delle loro vendite in ciascun Paese dove sono presenti. Il Tesoro degli Stati Uniti, promotore della minimum corporate tax, ha predisposto un piano che si applicherebbe ai profitti globali delle più grandi società, compresi i grandi gruppi tecnologici statunitensi, indipendentemente dalla loro presenza fisica in un determinato Paese. In altre parole, se un’impresa non essendo presente in un determinato Paese, vende servizi a livello locale, dovrà versare una parte dei profitti al governo.
L’obiettivo è la creazione di un sistema fiscale internazionale più stabile che spenga l’isteria delle tasse digitali e rompa gli schemi dell’elusione fiscale e del trasferimento dei profitti all’estero, operazione sistematica da parte di molte multinazionali e colossi del web. D’altronde, un accordo all’Ocse consentirebbe all’amministrazione Biden anche di aumentare le tasse sulle società statunitensi senza più timore. Bisogna sempre ricordare infatti che il grosso dei due pacchetti pandemici messi a punto dalla Casa Bianca e che insieme valgono quasi 5 mila miliardi di dollari, poggiano sull’aumento dell’imposta sui profitti delle società statunitensi, dal 21 al 28%. Senza questo incremento (al quale Amazon, tra gli altri, ha già detto sì) sarebbe pressoché impossibile per Biden finanziare per intero i due piani.
Non è finita. Se il piano statunitense fosse accettato in sede G20 e successivamente Ocse, molti Paesi sarebbero in grado di aumentare le rispettive entrate fiscali, visto che i numerosi colossi tecnologici che operano nelle loro giurisdizioni hanno finora versato le tasse nel Paese che ne ospita la sede fiscale, quasi sempre un contesto offshore. La stessa proposta di Washington riflette l’obiettivo più ampio di Biden di porre fine a quella corsa al ribasso sulla tassazione globale che ha privato i governi delle entrate necessarie per finanziare i servizi di base e gli investimenti.
Insomma, come ha chiarito più volte la stessa Yellen, è forse l’inizio di una nuova era fiscale globale. La fine di quel Washington consensus (espressione coniata nel 1989 dall’economista John Williamson) ovvero la teoria liberista e monetarista che ha determinato per decenni le politiche del Fmi, Banca Mondiale e Ocse, le principali organizzazioni internazionali in materia economica basata sulla riduzione della spesa pubblica e della imposizione fiscale.