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Tra le sabbie del Sahel si rafforza l’asse Roma-Parigi

La Francia è insabbiata nel Sahel. La lotta alle organizzazioni jihadiste che infestano e destabilizzano l’area è un interesse nazionale anche per l’Italia. A questo si lega la risposta operativa che Roma dà a Parigi, mentre Berlino frena

L’immagine degli elicotteri con i motori ingolfati dalla sabbia che hanno continuo bisogno di manutenzione è rappresentativa della situazione che la Francia vive nel Sahel, impegnata in una missione – “Barkane” – che dura da otto anni e che trova enormi difficoltà nel ripristinare le condizioni di sicurezza tra Mali, Burkina Faso, Niger, Mauritania e Ciad.

Ambiti di interesse nazionale francese, infestati da formazione ibride – jihadisti dediti a varie tipologia di attività criminali – che Emmanuel Macron identifica con la priorità strategica della lotta al radicalismo e al separatismo islamico. In patria come nella Françeafrique.

Parigi è in difficoltà tecniche. L’obiettivo per cui è iniziata al missione – salvare il Mali dalla caduta in mano ai jihadisti, ai tempi si chiamava “Serval” – s’è allargato nell’ottica a tutto campo contro le formazioni estremiste, ma mira anche alla (ri)composizione di una sfera di influenza in un territorio che come ha recentemente evidenziato Le Monde è pure ricco di risorse quali oro e altri minerali preziosi.

 

A inizio settimana, Mohammed Bazoum, neopresidente del Niger finito alla vigilia dell’insediamento vittima di un tentativo di golpe, ha dato un’altra di quelle immagini sullo stato della situazione: “Un modesto, condiviso fallimento” ha definito gli sforzi per contenere l’avanzata di gruppi jihadisti, che sono in parte affiliati ad Al Qaeda (come Aqim, ancora attivo nell’area tra Maghreb, Sahel e Sahara) o i baghdadisti di Egis (sigla che identifica la filiale dello Stato islamico nel Grande Sahara).

Attaccano i civili e le forze di sicurezza, si occupano di contrabbando di ogni genere di bene (dalla droga alla sigarette alle armi) sono responsabili di traffici di esseri umani. La destabilizzazione prodotta dalle loro azioni violente porta a dislocazioni e migrazioni interne, ma muove anche fenomeni migratori di carattere internazionale. Altro elemento che accresce l’interesse nazionale francese, ma che porta la questione su un livello superiore, coinvolgendo un’area che anche per altre nazioni, come l’Italia, è di valore primario.

Roma ha recentemente inviato un contingente di 200 forze speciali per prendere parte all’operazione “Takuba”, complementarietà europea a Barkhane col fine di dare sostegno ai maliani nella regione del Lipatko e creare una task force sotto coordinamento francese. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha commentato spiegando che l’invio è “nell’ambito di una strategia più ampia e organica con cui il nostro Paese agisce su quello che ormai può essere definito il fronte Sud avanzato della difesa dell’Europa da instabilità e infiltrazioni”, definendo le attività italiane in Africa un unicum dalla Libia, al Golfo di Guinea al Corno e spiegando che “per ottenere risultati ancora più solidi è necessario far convergere gli sforzi attuali verso una visione più sistematica sotto l’egida della Ue”.

Le condizioni sono delicate, le unità jihadiste resilienti, ma il coinvolgimento dei governi locali (come quelli del G5 Sahel) e l’impegno nel campo della sicurezza di queste forze armate, nonché l’approfondimento dei contatti con i contesti tribali locali sono un valore da dover sfruttare adesso più che mai.

Sebbene, contrariamente a quanto ricevuto da Roma, Parigi abbia trovato chiusure da Berlino. La Germania è già impegnata nell’area, fornendo un migliaio di militari tra la missione Minusma – Onu in Mali – e nell’EUTM in Mali (una delle missioni di training militare dell’Ue), ma non ha intenzione di prendere parte in missioni pro-attive come Takuba. Ossia, il governo tedesco non ha intenzione di inviare assetti autorizzati al combattimento.

C’è un’incompatibilità di fondo sulle priorità dell’iniziativa. Per i francesi vincere la guerra ai gruppi armati serve poi a lanciare progetti di ricostruzione (istituzionale, economica, sociale e infrastrutturale), per i tedeschi non c’è la subordinazione dei passaggi socio-economici alla vittoria militare (guidata dall’esterno). Due agende che mal si incrociano.

Il Sahel diventa allora un altro ambito paradigmatico di come il vuoto di potere in Germania (la fine della cancelleria Merkel e l’incertezza sul futuro) faciliti l’allineamento operativo – nel continente africano o all’interno dell’Unione – tra Francia e Italia. Con i primi che, entrati in una fase in cui l’impegno nel Sahel è too big too fail, hanno bisogno della cruciale sponda italiana; mentre Roma trova nel Sahel un teatro di proiezione di interessi e influenza da poter giocare anche su altri tavoli (come fatto notare da Vittorio Emanuele Parsi su queste colonne).

Anche perché oltre alle difficoltà tecniche per Parigi si iniziano a intravvedere anche quelle politiche e comunicative: condizioni che chiedono vittorie anche considerando la prossima scadenza elettorale per Macron. A febbraio parte dell’opinione pubblica francese si aspettava che l’Eliseo uscisse dal vertice del G5 Sahel annunciando una riduzione del contingente (oltre cinquemila uomini impegnati in Barkhane, che finora ha visto rientrare 55 salme e molti casi di PTSD, oltre che 1 miliardo di euro di costi). Ma così non è stato, e nel frattempo sono arrivate accuse contro i militari francesi di violenze e vittime civili inserite in un report dell’Onu.

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