Chi interviene a gamba tesa, chi preferisce la cautela, chi si riserva il potere di bandire: come si muovono i Paesi europei sul 5G cinese
Il 5G e le sue implicazioni geopolitiche non smettono di far discutere. Mentre si scopre che le forze di polizia italiane rischiano di affidare le proprie telecomunicazioni a infrastrutture cinesi, pare opportuno rivisitare il tema e capire come si posizionano i diversi Paesi europei, perché dalla connettività di prossima generazione dipendono lo sviluppo, la (ciber)sicurezza e l’autonomia strategica dell’eurozona.
Per Washington l’equipaggiamento 5G prodotto e gestito da fornitori cinesi, semplicemente, è un potenziale veicolo di spionaggio. Il problema ha carattere legale oltre che competitivo (leggi: sovvenzioni statali), perché la legge cinese costringe le aziende locali a condividere i propri dati con le autorità, se queste li richiedessero, per motivi di sicurezza. Questo è stato evidenziato anche dal Copasir in un rapporto del 2019 che consiglia alle autorità italiane di escludere le due principali aziende cinesi del settore – Huawei e ZTE – dalle infrastrutture italiane.
Pechino respinge le accuse di spionaggio, ma ciò non ha impedito all’America e al Regno Unito di bandirle completamente dalle rispettive reti di telecomunicazione. L’Australia è andata anche più avanti: oltre allo spionaggio, paventa la possibilità di poter “spegnere” le infrastrutture strategiche di un Paese dall’esterno. I Paesi europei, invece, non ricorrono a manovre così drastiche per tre motivi fondamentali: la dipendenza delle telco europee dalla tecnologia cinese a buon mercato, i legami commerciali tra Ue e Cina in senso più ampio e quelli, correlati, di natura politica.
L’approccio dell’Ue per i fornitori potenzialmente malsicuri è inscritto nella Toolbox e il documento di valutazione del rischio. Si tratta di linee guida per mitigare il rischio di sicurezza che deriva dal fare ricorso a fornitori extra-Ue. Uno dei principali fattori di rischio è la possibilità di interferenza di uno Stato terzo, specie nel caso in cui quest’ultimo mostri tendenze antidemocratiche, o se il fornitore ha uno stretto legame col governo o se ne può subire le pressioni.
Se il Toolbox vale per tutta l’Ue, sta ai singoli stati membri scegliere se (e quanto) aderirvi. Oggi i Paesi più zelanti nel farlo sono quelli scandinavi e dell’Est Europa. Svezia e Norvegia hanno vietato l’utilizzo di tecnologia 5G cinese e hanno dato alle telco pochi anni di tempo per rimuovere l’equipaggiamento già installato. Bulgaria, Estonia, Lituania, Lettonia, Polonia, Repubblica ceca, Romania e Slovacchia hanno firmato dei memoranda con l’amministrazione Trump per lasciare Huawei fuori dai rispettivi mercati; Polonia e Romania hanno già avviato le procedure legali.
Dall’altro estremo dello spettro ci sono i Paesi molto cauti nell’inimicarsi la Cina bloccando l’accesso alle infrastrutture di fornitori cinesi messi nella blacklist dagli Stati Uniti. Austria, Lussemburgo, Olanda e Portogallo non hanno attuato nessun tipo di azione in tal senso, anche se le aziende telco olandesi e portoghesi hanno deciso autonomamente di escludere il 5G cinese. La Spagna, invece, ha optato per un processo più burocratico lasciando agli esperti la decisione, previa valutazione del rischio. Una legge per la cibersicurezza in uscita quest’estate chiarirà ulteriormente le regole.
A metà strada ci sono i Paesi che Euractiv chiama “interventisti”, ossia Finlandia, Francia e Italia, a cui si è appena aggiunta la Germania con l’approvazione dell’IT Security Act 2.0. Le autorità di questi Paesi hanno il potere di bloccare l’acquisizione di equipaggiamento Huawei. In Italia, per esempio, Palazzo Chigi ha già utilizzato più volte il golden power in tal senso. In Francia il presidente ha il potere di vietare l’utilizzo di componenti 5G da fornitori ad alto rischio, anche se spesso ci pensa l’agenzia di cibersicurezza locale (ANSSI) che ha già limitato l’acquisizione di tecnologia Huawei e ha in progetto di rimuovere quella già installata entro il 2028.
Il caso della Germania esemplifica perfettamente il dilemma di una nazione europea con interessi contrastanti. Da una parte la necessità di sviluppare delle infrastrutture sicure, dall’altra l’accesso ai costruttori cinesi, su cui si poggia gran parte dell’industria automobilistica locale. Ma sebbene la cancelliera Angela Merkel sia sempre stata cauta nel fronteggiare il Dragone, le pressioni si stanno accumulando nel Bundestag, tanto che un parlamentare del suo partito, Christoph Bernstiel, ha preso di mira i vendor cinesi in aula: “[s]e il partito comunista cinese continua ad agire come ha fatto a Hong Kong, nel trattamento degli uiguri o con la loro aggressiva espansione nel Mar Cinese meridionale, allora dubito che classificheremo un’azienda che è sotto il controllo del governo cinese come fornitore affidabile di 5G”.