Skip to main content

Il risiko bancario secondo Draghi. Tra Unicredit, Banco e Mps

La proroga degli incentivi in caso di fusione (perdite fiscali da tramutare in crediti di imposta) è un chiaro segnale del Tesoro ai banchieri, Orcel in testa. Aprire subito il cantiere delle fusioni, prima che sia poco conveniente. E su Unicredit-Banco Bpm…

A qualcuno forse ricorderà il vecchio gioco del Tetris, dove vince chi incastra meglio i singoli pezzi. Per alcune banche italiane la situazione è tutto sommato simile. La lenta risalita dalle tenebre della pandemia imporrà agli istituti italiani di riparare, in parte, ai devastanti danni all’economia reale. Il che a sua volta comporterà un irrobustimento generale del sistema bancario, raggiungibile esclusivamente attraverso fusioni. Naturale dunque che il risiko bancario abbia ripreso vita (qui l’articolo di Formiche.net dedicato alle grandi partite in corso).

Lo scacchiere tricolore vede in campo non meno di cinque banche: Mps, Unicredit, Bper, Banco Bpm e Carige. Tutte alla ricerca di un partner con cui allargare le spalle in vista di una congiuntura non facile. Resta da capire come e dove muovere le pedine, ovvero chi andrà in sposa a chi. Guardando al palazzo, al di là dell’Atlantico in molti sono convinti che Mario Draghi sia uno sponsor d’eccellenza delle aggregazioni, che già sosteneva quando era al vertice della Banca centrale europea. “Quando Draghi era alla Bce ha spinto, senza successo, per le operazioni di aggregazioni”, ha scritto in un editoriale il Wall Street Journal. “Ora, come primo ministro italiano, ci riprova, sperando di stimolare un’ondata di consolidamento tra gli istituti”.

Fin qui il quadro della situazione. Poi c’è la fase operativa e qui entrano in gioco le ormai famose Dta (Deferred tax asset) ovvero incentivi alle aggregazioni: perdite fiscali che già da inizio anno possono essere trasformate in credito d’imposta (e quindi in capitale) in caso di fusione con altre banche a fronte della corresponsione di commissioni, deducibili ai fini Ires e Irap, pari al 25% dell’importo. Un tesoretto che secondo i calcoli di Deutsche Bank vale circa 11,6 miliardi per gli istituti italiani (contro i 10,8 precedenti), mentre nel caso specifico di Mps-Unicredit ammonta a 3,4 miliardi.

Il decreto Sostegni-Bis ha modificato l’ultima manovra, fissando al 2% (e non al 3, come nella bozza precedente) la soglie delle Dta del totale degli attivi della banca più piccola coinvolta nella fusione, ma soprattutto ha stabilito che per beneficiare del credito per imposte differite in caso di fusione non è più necessario che entro il 31 dicembre 2021 il progetto di fusione sia approvato dalle assemblee delle società partecipanti, essendo sufficiente la sola approvazione da parte dei board. In altre parole, viene concesso qualche mese in più alle banche per muoversi, visto che gli incentivi saranno applicati se gli accordi di fusione saranno approvati dai consigli di amministrazione delle banche entro fine anno.

Secondo una fonte molto vicina al dossier bancario interpellata da Formiche.net, l’ultimo decreto del governo sarebbe una sorta di messaggio subliminale del Tesoro, azionista di Mps al 64,2% e sulla via del disimpegno da Siena su pressing dell’Ue, ai banchieri affinché mettano in cantiere le aggregazioni una volta per tutte, sfruttando la finestra delle Dta prima che sia troppo tardi. Un messaggio che avrebbe nella realtà un destinatario preciso, il ceo di Unicredit, Andrea Orcel, successore al vertice di Piazza Gae Aulenti di quel Jean-Paul Mustier che la fusione con Mps non la voleva proprio.

Il punto di caduta è che la proroga delle Dta riguarda le fusioni amichevoli, non certo le operazioni ostili, le scalate per intendersi. E questo, spiega la fonte, denota una volontà piuttosto precisa del Tesoro di spingere Unicredit a rompere gli indugi e aprire ufficialmente il cantiere dell’aggregazione. E questo perché la banca milanese non necessità di Dta al 3%, ma è sufficiente il 2%. Tuttavia, nella logica del Tesoro la proroga sarebbe un motivo sufficiente per spingere Unicredit verso le nozze con un’altra grande banca in cerca di un partner, ovvero Banco Bpm. In sintesi, rivela la fonte, il governo vuole fare in fretta e chiudere le varie partite, arrivando a far deliberare le fusioni nelle assemblee della primavera 2022.

Più che su Mps, quindi, nei desiderata dell’esecutivo ci sarebbe più un’operazione Unicredit-Banco che Unicredit-Mps. Per Siena, si mormora in ambienti finanziari, potrebbe aprirsi la strada dello spezzatino, anche se un’aggregazione tra Mps e Unicredit non è affatto esclusa. Il problema di Siena non è solo la perdita di 1,6 miliardi riportata nel 2020, ma anche un aumento di capitale da 2,5 miliardi che incombe. Un’integrazione tra Unicredit e Banco Bpm potrebbe creare quel secondo polo bancario nazionale, dopo Intesa e Ubi. Lasciando Siena a un altro destino.



×

Iscriviti alla newsletter