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Biden-Netanyahu. Così cambia lo storico rapporto tra Usa e Israele

Di Gabriele Carrer e Emanuele Rossi

Le relazioni che la Casa Bianca di Joe Biden sta portando avanti con Israele rendono chiaro un cambio di postura? Possibile: il democratico non ha un buon rapporto con Netanyahu e vuole soddisfare una richiesta interna, ma Tel Aviv resterà sempre un alleato privilegiato

Durante la sua visita in Israele e prima di volare al Cairo, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha invitato il presidente israeliano Reuven Rivlin a Washington per un incontro alla Casa Bianca con l’omologo Joe Biden “nelle prossime settimane”. Ossia prima della scadenza del suo mandato. Il capo di stato ebraico ha accettato l’invito, che arriva a pochi giorni della fine del suo mandato.

Secondo Martin Indykdistinguished fellow del Council on Foreign Relations già ambasciatore statunitense in Israele con Bill Clinton e inviato speciale per la pace in Medio Oriente di Barack Obama, l’invito “rappresenta un segnale di profondo rispetto per un leader israeliano che ha dedicato la sua presidenza alla promozione delle relazioni tra comunità”. Poi aggiunge sibillino: “Nota: per quanto ne so, non c’è alcun invito al [primo ministro BenjaminNetanyahu”.

La mossa del segretario Blinken non può che essere letta assieme a un’altra: il capo della diplomazia statunitense ha concluso la sua prima giornata in Medio Oriente con il rinnovato sostegno a Israele ma anche con la promessa di un aiuto da 75 milioni di dollari ai palestinesi e l’annuncio della riapertura del consolato generale a Gerusalemme Est. Quest’ultima decisione fotografa perfettamente la nuova impostazioni statunitense in Medio Oriente: il consolato generale riaprirà dopo che le sue funzioni erano state assorbite dalla nuova ambasciata aperta nel 2019 a Gerusalemme, a distanza di due anni dalla scelta dell’ex presidente Donald Trump di riconoscerla come capitale di Israele.

Le decisioni della nuova amministrazione statunitense hanno incassato il plauso della leadership palestinese, con Mahmud Abbas che ha ringraziato Blinken e Biden per “il loro impegno per la soluzione dei due Stati” e per il mantenimento dello “status quo” di quello che per gli ebrei è il Monte del Tempo mentre per i musulmani è la Spianata delle Moschee dopo i violenti scontri delle scorse settimane.

Sono bastate le prime mosse “mediorientali” dell’amministrazione Biden per dimostrare un netto cambio di rotta. Basti pensare che a fine settembre 2016, Netanyahu aveva fatto visita a Trump nella Trump Tower di New York (e pure alla sfidate presidenziale Hillary Clinton) poche ore prima del primo dibattito pubblico tra i due candidati alla Casa Bianca. Nel gennaio successivo il primo ministro israeliano (che nel 2015 parlò al Congresso americano ma non fu invitato alla Casa Bianca dall’allora presidente Obama) fu tra i primi a congratularsi ufficialmente con Trump appena insediato. E neppure un mese più tardi, a febbraio, gli faceva visita alla Casa Bianca.

Fu l’inizio di quattro anni di grande feeling culminati negli Accordi di Abramo e favoriti dal lavoro cruciale del Mossad guidato dal fedelissimo del primo ministro Yossi Cohen (che tra pochi giorni lascerà la guida dell’agenzia a David Barnea e già sta pensando al futuro tenendo vivo il contatto con Washington, in particolare modo con l’ex segretario al Tesoro trumpiano Steve Mnuchin, come rivelato da Axios.com).

Proprio Cohen nelle scorse settimane era alla Casa Bianca per un incontro con il presidente Biden. La presenza del capo del Mossad (e non del primo ministro, nemmeno in questo caso) non è casuale. L’importanza degli appartati, su tutti quello dell’intelligence, in Israele è cruciale: i governi passano, la politica vive un perenne disequilibrio, mentre le strutture guidano lo stato. Segno evidente che questo tipo di interlocuzione resta viva anche con la Washington democratica di Joe Biden, mentre cambia la postura nei confronti di Netanyahu.

Se c’è stato un momento in cui la recente offensiva degli undici giorni è entrata in crisi, è stata quando il segretario Blinken ha affermato di non essere certo della presenza di comandi di Hamas nel palazzo di Gaza che i jet israeliani avevano bombardato e in cui avevano sede anche grandi media internazionali, su tutti l’Associated Press (che negli Stati Uniti ha un altissimo valore, basta pensare al ruolo che svolge nell’assegnazione dei risultati elettorali). Un messaggio: mani libere per azioni difensive, ma senza eccessi. Poco dopo sarebbe arrivata l’accettazione israeliana del cessate il fuoco mediato dall’Egitto.

Le ragioni di questo cambiamento sono da ricercare in questioni profonde. Biden è consapevole che non può mollare Israele, nonostante non abbia un rapporto amorevole con Netanyahu, sia per il valore strategico che il paese nel disimpegno americano dal Medio Oriente, sia per non perdere il contatto con una parte di elettorato ancora molto coeso con il mondo ebreo-americano (per esempio quello evangelico). Ma proprio dal mondo vasto, articolato degli ebrei statunitensi nasce un annacquamento nella volontà di sostenere lo stato ebraico impossibile da ignorare.

La fetta demografica più giovane della comunità degli ebrei negli Usa è ormai completamente assimilata (come risulta dai dati di un ampio sondaggio del Pew Research) e questo si sta portando dietro un parziale disinteresse per il destino dello stato ebraico. Contribuenti assolutamente americani che iniziano sostanzialmente a pensare che per esempio spendere 4 miliardi di dollari all’anno come forma di assistenza militare Usa a Israele (dei 20 circa di bilancio annuale che Tel Aviv destina alla Difesa) diventa quasi uno spreco. Soldi che vorrebbero investiti in quella che sentono come la loro casa definitivamente, l’America. Persone che sono (giovani) elettori a cui Biden e i Dem intendono dare una risposta? Con Israele sempre e comunque, ma segnando un perimetro di azione condivisa che, in quanto ampio, sarebbe bene possibilmente non violare.


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