Pechino valuta la messa fuori legge delle attività di estrazione della criptomoneta, molto dispendiose da un punto di vista energetico. Sarebbe un colpo micidiale visto che il Dragone ospita il 65% della potenza di calcolo globale. Ma Elon Musk cambia ancora idea e torna a tifare Bitcoin. Mentre a Hong Kong…
Non sarà un colpo mortale, ma di sicuro un fendente da quale riprendersi dopo una lunga convalescenza. La Cina affonda la lama su Bitcoin e mette in seria discussione l’esistenza della criptomoneta nella Repubblica Popolare. E lo fa a una settimana dalla fatwa lanciata contro quegli operatori finanziari rei di fornire al mercato servizi che prevedono transazioni in criptovaluta. Immediato il crollo del valore, scivolato in pochi minuti sotto i 40 mila dollari, complice la dura presa di posizione (non la prima in realtà) della Bce contro Bitcoin&Co.
MAZZATA CINESE SUL BITCOIN
Stavolta se possibile è anche peggio. A Pechino non ne vogliono sentir parlare di Bitcoin, al punto da prendere seriamente in considerazione l’idea di mettere fuori legge l’intera attività di mining, ovvero l’estrazione della criptomoneta per poi immetterla nel mercato. Un’operazione che necessità di server dannosi per l’ambiente, dato l’elevato fabbisogno di energia per funzionare, al punto da aver spinto lo stesso Elon Musk, patron di Tesla, a una repentina retromarcia, dopo aver investito nelle criptomonete e aver aperto al loro uso per l’acquisto di veicoli elettrici.
“La Cina sarebbe pronta a reprimere il mining e lo scambio di bitcoin e si assicurerà che i rischi individuali non siano trasferiti all’intera società”. Sono queste le parole, contenute in una nota del Comitato per la stabilità e lo sviluppo finanziario del Consiglio di Stato, con cui il governo cinese si schiera formalmente contro Bitcoin. Tradotto, Bitcoin e processo di estrazione a monte illegale. Secondo quanto anticipato dal South China Morning Post, sarebbero tre le motivazioni che hanno portato Pechino a schierarsi così duramente contro Bitcoin: innanzitutto c’è il rischio legato alla stabilità finanziaria, ma anche il ruolo sempre più importante che i Bitcoin stanno interpretando nell’ambito del riciclaggio di denaro e nel traffico di droga. La terza motivazione riguarda, parole di esponenti di primo piano del governo cinese, l’uso dissoluto di energia elettrica per la creazione di bitcoin e il mantenimento dell’infrastruttura della cripto-valuta.
E pensare che la Cina è uno snodo cruciale per la cripto-valuta: oltre il 65% della potenza di calcolo utilizzata dalla rete alla base del funzionamento di Bitcoin è concentrato nell’ex Celeste Impero.
MA HONG KONG…
In Asia però il Bitcoin una speranza ce l’ha. Hong Kong sta portando avanti il disegno di legge varato a fine 2020 che prevede la concessione di licenze agli stranieri per il trading di Bitcoin. In altre parole, c’è una chiusura indiretta nei confronti di chi continua a gestire il business senza autorizzazione. Tutto il contrario di quello che accade o sta accadendo in Cina. L’obiettivo dell’ex colonia britannica è quello di limitare il trading di criptovalute agli investitori professionali. D’altronde, quello che non si può fare in Cina è stato, almeno fino a qualche anno fa, fattibile a Hong Kong che ha sempre funzionato come piazza offshore di Pechino.
L’ULTIMA GITAVOLTA DI MUSK
Poi, c’è il fattore Elon Musk, capace di influenzare l’andamento della quotazione di Bitcoin con un solo tweet (il suo dietrofront sui miners via social, tre settimane fa, è costato il 16% del valore della criptomoneta in poche ore). Adesso è di nuovo tempo di tifare Bitcoin e sempre via Twitter. L’imprenditore avrebbe infatti individuato minatori pronti a rendere verde la regina delle criptovalute.