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Separare il futuro dell’Africa dal dominio cinese. L’incontro di Parigi

Mentre nella capitale francese i governi del mondo studiano un rilancio africano sotto forma di new deal, le imprese del Dragone continuano ad aggiudicarsi infrastrutture e progetti, legando il debito sovrano di molti Paesi a quei “prestiti muscolari” che mettono in crisi i governi

Le buone intenzioni dell’Europa e delle economie più avanzate per l’Africa rischiano di peccare di scarso realismo. E dunque di infrangersi contro il muro della Cina, che del Continente sta facendo terra di conquista. A Parigi è in corso il meeting internazionale organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron a seguito dell’appello dell’aprile 2020, firmato da 18 leader europei e africani sull’impatto finanziario della crisi sanitaria in Africa.

Obiettivo del vertice, al quale ha partecipato il premier Mario Draghi con Capi di Stato e di governo africani e dei Paesi occidentali, capire come rendere sostenibile il debito di un Continente devastato dalla pandemia e dall’economia ancora troppo fragile. E per questo boccone ghiotto per un predatore esperto. Come la Cina. Ma anche cercare nuove fonti di finanziamento per l’Africa sub-sahariana colpita dalle conseguenze del Covid-19 e dal peso del debito.

Tutto molto giusto, se non fosse che l’Africa corre il serio rischio di diventare una sorta di colonia finanziaria cinese, come raccontato a più riprese da Formiche.net. In seguito al lancio nel 2014 della via della seta africana, i governi africani per finanziare le opere e le infrastrutture strategiche, si sono rivolti alle banche cinesi per ottenere quella liquidità che altrimenti non avrebbero potuto avere. Bene, anzi no. Perché proprio questa scelta è all’origine di quei prestiti muscolari concessi da Pechino a caro prezzo: clausole poco chiare, creditori tenuti in compartimenti stagni e soprattutto un’ipoteca sul debito sovrano a garanzia del finanziamento. Debito cattivo, insomma, che rischia di bloccare sul nascere una ripresa economica africana.

Il brutto è che le cose non stanno migliorando e non solo per l’insolvenza verso Pechino di molti governi sub-sahariani. Nonostante numerose istituzioni globali, tra cui lo stesso Fondo monetario internazionale, siano ben consce della natura opaca e ambigua di questi prestiti, le aziende cinesi stanno continuando ad aggiudicarsi gli appalti relativi ai mega progetti in Africa. Al punto che le società di ingegneria cinesi oggi “hanno raggiunto una posizione dominante nel mercato africano”, ha sottolineato Hong Zhang, ricercatore presso la Schar School of Policy and Government a George Mason University in West Virginia.

Addirittura in alcuni paesi, come la Tanzania, la quota di mercato delle società cinesi è superiore all’80%. Peccato che, annessi all’appalto, ci siano anche quei finanziamenti rischiosi: la società vincitrici della gara portano in dote anche i prestiti delle banche del Paese d’origine, la Cina, senza i quali il governo locale non può pagare l’opera. E scatta la trappola. Il presidente della Tanzania, John Magufuli aveva appena annullato il contratto di prestito cinese da 10 miliardi di dollari firmato dal suo predecessore Jakaya Kikwete per la costruzione del porto. Ma la lista dei Paesi legati a doppio filo a Pechino è lunga e parte da Madagascar, Kenya, Zambia e Zimbabwe.

A Parigi si pensa a un New Deal d’Africa. Ma qualcuno non ha fatto i conti con la via della seta.



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