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Corsa spaziale tra Usa e Cina. E l’Europa? Scrive Spagnulo

Lo Spazio è una frontiera geopolitica e commerciale, teatro di una competizione serrata tra americani e cinesi (e la Russia cuneo temibile tra i due rivali). L’Europa appare statica. Solo i dirigenti francesi sembrano ben consapevoli dei rischi che ne derivano e provano a fare asse con italiani e tedeschi tra accordi e contrasti. L’opinione dell’ingegnere ed esperto aerospaziale

George Friedman, professore di scienze politiche ungherese, naturalizzato statunitense, ha scritto molti libri di geopolitica. Il suo prossimo lavoro, atteso per la fine di quest’anno, riguarderà la prossima Space War. In un’intervista di pochi anni fa ha affermato di avere la brutta sensazione che questa guerra sia appena dietro l’angolo ed ha esposto con lucidità motivazioni e fatti che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Spiegando perché il dominio terrestre discenda dal controllo del pianeta e dei suoi oceani dallo Spazio, Friedman dichiarava che la militarizzazione spaziale era già in atto a un ritmo crescente, e che il nuovo teatro di guerra sarebbe stato combattuto non tanto con gli uomini ma con robot e computer.
Le guerre spaziali avranno una bassa (speriamo) letalità umana, poiché il peso delle battaglie sarà da macchina a macchina, da satellite a satellite. Ovviamente, un elemento chiave sarà l’accesso allo Spazio, cioè i vettori di lancio con cui andare in orbita. Ecco perché tutte le nazioni spaziali investono massivamente nei lanciatori. Mosca adotta solidi vettori dal design vetusto ma basilare; Pechino negli ultimi dieci anni ha realizzato una flotta impressionante di razzi e sta costruendo spazioporti persino su isole artificiali; Washington sostiene i suoi contractors consolidati (Boeing e Lockheed) e lascia briglia sciolta ai nuovi imprenditori privati (Musk, Bezos). E l’Europa?
Al di là di dichiarazioni di facciata l’Ue nello Spazio sconta una carente armonia strategica condivisa, nonostante una solida base industriale in grado di costruire satelliti e lanciatori di tutto rispetto. Il Regno Unito ha scelto di ancorarsi agli Stati Uniti, ma Francia, Germania e Italia no, quantomeno non ancora. A nostro avviso, solo a Parigi i centri di pensiero strategico hanno ben chiara la situazione e le sue implicazioni. Ma hanno difficoltà, non solo di interazione con gli alleati europei, italiani e tedeschi, ma anche nell’elaborazione di prospettiva strategica. Parliamo del settore spaziale, ovviamente. Jean Pierre Darnis su queste colonne (vedi qui) traccia un quadro lucido, ponendo questioni che anche noi avevamo sollevato mesi fa, quali “Come può l’industria europea reggere la competizione di Elon Musk e Jeff Bezos? Lo Spazio può restare separato dalla rivoluzione digitale? L’Ue è pronta a riformare il suo approccio?”.
La tesi di fondo è che per mantenere le competenze tecnologiche e quindi la sovranità democratica (n.d.r. letterale), occorre far crescere gruppi europei transfrontalieri che integrino le tecnologie spaziali e quelle digitali legate al mercato dei dati, e per fare ciò ci vorrebbe una visione riformatrice dei principali azionisti (cioè degli Stati) e l’adeguamento della politica europea di concorrenza (cioè meno vincoli alla libera impresa). “Vaste Programme” direbbe il generale Charles De Gaulle. Ma al di là di questo, il razionale – che in qualche modo si potrebbe considerare come front-runner del pensiero politico di Parigi – è che di fronte a tali sfide epocali, la soluzione sia il consolidamento industriale anche diversificato settorialmente (cioè tra industria spaziale e quella digitale per esempio) e aggregato su grandi progetti europei. Ovviamente a guida francese, aggiungiamo noi. Il punto però non è tanto su chi guida, ma per fare cosa.
Parigi può avere una legittima visione e perseguirla, è il paese leader delle attività spaziali europee e ne ha sempre fatto uno strumento duale della propria politica. Però oggi la sfida tra Stati Uniti e Cina è esiziale per il nuovo ordine mondiale, e non a caso Jean Pierre Darnis usa il termine “condizioni di sovranità democratica” per far riferimento alla capacità di controllo sui dati e sulla tecnologia. Il concetto di democrazia è ampio in questo senso, perché la limitazione politica di espressione può essere attuata con mezzi coercitivi dai governi, ma anche da multinazionali private che si professano libere e liberali. Quindi il punto è aggregarsi per fare qualcosa di condiviso e funzionale. Prendiamo per esempio l’accesso allo Spazio, cioè i lanciatori.
Da tempo la Francia preme per un consolidamento industriale per (dicono) efficientare il settore e renderlo competitivo. Però non è chiaro per quale prodotto. Il ministro dell’Economia e Rilancio francese, Bruno Le Maire, che ha la tutela dell’agenzia spaziale Cnes di Parigi, afferma che il prossimo Ariane 6 (se tutto va bene il primo lancio sarà nel 2022) non è competitivo e bisogna guardare oltre. Così Esa e Cnes avviano gli studi per il successore Ariane Next previsto per il 2030 e pensano a un futuribile Ariane Ultimate del tutto nuovo, carbon-neutral, riutilizzabile e a basso costo, da far entrare in servizio dopo il 2040.
Il fatto è che tra vent’anni avremo uno scenario diverso, inimmaginabile. Pensiamo al progetto Starship della SpaceX con cui Elon Musk dice di voler andare su Marte. È un’astronave alta 120 metri in acciaio inossidabile dotata di un primo stadio, Super Heavy, con 31 motori Raptor (tanto per capirci, la spinta totale è pari a quella di 80 Boeing 747 messi insieme), mentre la Starship vera e propria ha altri tre motori. Il progetto fu annunciato nel 2017; due anni dopo i primi esemplari si alzarono in volo di pochi metri; nel 2020 un prototipo raggiunse i 12 Km di altezza; quest’anno, dopo vari crash, l’astronave ha volato in alta quota e poi atterrata integra. Tutto questo in cinque anni. Ora, la SpaceX ha chiesto l’autorizzazione alla FAA per effettuare nei prossimi mesi il suo primo volo orbitale. Starship dovrebbe decollare dalla base in Texas e atterrare dopo 90 minuti al largo delle Hawaii su una piattaforma galleggiante. Il primo stadio Super Heavy dovrebbe essere recuperato nel Golfo del Messico pochi minuti dopo il lancio anch’esso su una piattaforma.
Ora immaginate che nel 2040, mentre la Ue dovrebbe inaugurare l’Ariane Ultimate, le Starship potrebbero già essere da un bel pezzo il mezzo di trasporto spaziale (e sub-orbitale) di satelliti, cargo e persone, civili e militari. Provocazione? Forse, ma per riprendere le legittime considerazioni sulla sovranità tecnologica e democratica è logico pensare che consolidare l’industria ha senso se c’è una strategia. Non è detto che inseguire per forza SpaceX sia la via migliore quando la distanza è troppo ampia. Ariane 5 e Vega sono comunque dei vettori affidabili con cui sostenere l’accesso allo Spazio e le loro evoluzioni o migliorie non sono certo da escludersi, ma i lanciatori sono un mezzo e non un fine in sé. La competizione strategica si gioca nell’orbita eso-atmosferica e cis-lunare, ed è lì che vanno realizzati sistemi innovativi con cui l’Europa può puntare ad avere un ruolo. E scegliendo il campo geopolitico di appartenenza, a nostro avviso.


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