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Putin, Zelensky e papa Francesco. Perché il vertice (non) si farà

Dopo la manifestazione di forza della Russia al confine ucraino, si apre uno spiraglio per un confronto diretto fra Putin e Zelensky. Non si farà a San Pietro, con la mediazione vaticana, ma più probabilmente a Mosca. Ecco dubbi e rischi del vertice. L’analisi di Dario Quintavalle

Ora che la polvere dei cingolati si sta posando, è più facile apprezzare il significato della impressionante dimostrazione di forza militare che la Russia ha organizzato alle frontiere dell’Ucraina tra marzo ed aprile. Come avevamo detto, non si trattava dei preparativi di un attacco, ma di un rumoroso avvertimento, all’Ucraina come all’Occidente, a non oltrepassare le linee rosse fissate da Mosca. Linee rosse cui Putin ha fatto riferimento nel suo recente discorso, di cui hanno parlato su queste colonne Morini e Pellicciari.

In sintesi, la Russia ritiene intollerabile l’adesione dell’Ucraina ad organismi occidentali, dalla Nato alla Ue. Inoltre, ogni tentativo ucraino di risolvere la situazione del Donbas con la forza – da soli o con l’aiuto degli Stati Uniti – avrebbe una immediata risposta militare.

Il messaggio è stato ricevuto e compreso, e il presidente Zelensky, che si era poco prima mostrato in divisa nelle trincee, ha proposto un vertice tra lui e Putin.

In primis, il 20 aprile, Zelensky aveva invitato Putin ad incontrarsi nel Donbas, lungo la linea di contatto, dove si sta consumando la guerra. Ma la risposta non era stata incoraggiante: Putin aveva invitato a bussare direttamente ai leader delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, chiamandosi fuori.

Si era riproposta dunque tutta la differenza di valutazione tra i due Paesi, riguardo alla situazione sul terreno. Per Kiev, la secessione delle due piccole repubbliche a seguito dei moti noti come Maydan è una manifestazione terroristica alimentata direttamente dalla Russia. Per la Russia è solo una guerra civile, e dunque un affare interno ucraino, nel quale la Russia può intervenire solo in posizione di mediatore terzo, eventualmente insieme agli altri stati del ‘formato Normandia’ (Germania e Francia, ma non Usa).

Tuttavia Putin ha subito rilanciato, dicendosi pronto a ricevere il leader ucraino a Mosca “per discutere di questioni bilaterali”.

Quale dovrebbe essere l’agenda dell’incontro? Putin ha fatto riferimento alle questioni dell’integrità della Chiesa ortodossa russa e della lingua russa. Si tratta di politiche iniziate con il predecessore di Zelensky, Poroshenko, volte a recidere completamente i legami culturali e religiosi che ancora, e a dispetto di tutto, tangono stretti i due paesi.

La chiesa ortodossa ucraina ha dichiarato l’autocefalia, cioè la completa indipendenza, dal patriarcato di Mosca. Di conseguenza si è arrivati a un vero scisma, con parrocchie che hanno mantenuto ovvero ripudiato la comunione con Mosca.

La questione della lingua è ancora più spinosa. Metà del Paese, quella orientale, parla russo come prima lingua, e il russo è comunque diffuso in tutto il paese. L’idea era quella di vietare l’insegnamento superiore in qualunque altra lingua che non fosse l’ucraino. L’obiettivo era la scomparsa della lingua russa nel giro di una generazione. Uno scenario già verificatosi nei paesi dell’ex Unione Sovietica, i cui leaders, quando si incontrano, preferiscono ormai ricorrere all’inglese, piuttosto che al russo, che vede minacciata la sua dimensione di lingua veicolare.

Ma in Ucraina il russo è madrelingua, e queste misure – quantunque dirette soprattutto contro la Russia – stanno offendendo stati vicini, come l’Ungheria, che hanno minoranze nazionali in Ucraina. Lo stesso presidente Zelensky era stato eletto in quanto russofono e nel suo programma c’era un atteggiamento più conciliante sulla questione.

La sua portavoce, Iulija Mendel ha fatto un’analogia con la lingua inglese, ricordando che ne esistono diverse varianti, e che parlarla non significa automaticamente identificarsi come inglesi. Similmente si potrebbe ammettere una russofonia ucraina, pur mantenendo l’identità del paese ben distinta da Mosca. Segnale che ci si sta lentamente spostando dalle ipoteche ultranazionaliste.

Se Putin è ora disposto al dialogo è dunque perché dopo aver mostrato il bastone può permettersi di offrire la carota. Un atteggiamento meno ostile dell’Ucraina, e più distante dall’Occidente, potrebbe avere come contropartita un allentamento della tensione in Donbas, fermo restando che l’annessione della Crimea è per la Russia un fatto compiuto e indiscutibile.

Insomma, il vertice tra i due presidenti sarebbe una prova di dialogo diretto che dovrebbe, nelle intenzioni di Mosca, recuperare almeno parzialmente il vicino, con lo scopo di riportarlo, se non a una completa obbedienza, quantomeno alla neutralità.

Al tempo stesso, però, Zelensky non può permettersi di perdere l’appoggio degli Stati Uniti di Biden, unico paese convintamente a sostegno dell’integrità territoriale ucraina.

Forse è da leggere in questo senso la sua estemporanea proposta di tenere il vertice in Vaticano, evidentemente ritenuto un possibile mediatore neutrale. È però una idea difficilmente attuabile. Per quanto non sia immediatamente evidente, l’Ucraina ha un’anima cattolica, seppure minoritaria. Si tratta però di una chiesa uniate, cioè risultato della conversione dall’ortodossia al cattolicesimo.

Papa Francesco ha più volte condannato l’uniatismo come un metodo superato per garantire l’unità dei cristiani, ed ha spesso dimostrato di considerare il cattolicesimo ucraino una fonte di imbarazzo nel dialogo diretto col Patriarcato di Mosca. Non sembra possibile dunque che la proposta – non concordata con la Santa Sede – venga accolta favorevolmente.

Se un vertice tra Putin e Zelensky alla fine si farà, non potrà essere che a Mosca, e senza intermediari. È tempo di guardare l’orso russo dritto negli occhi.


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