Formazione e fondi: così l’amministrazione Biden sta cercando di contrastare la tecnologia cinese (Huawei e Zte) nei Paesi alleati e partner. “La sicurezza del 5G è una priorità assoluta”, dice Stephen Anderson, vice assistente segretario del dipartimento di Stato che si occupa di telecomunicazioni e tecnologia
L’avvicendamento alla Casa Bianca non ha cambiato la posizione degli Stati Uniti contro il 5G cinese. Diverso, però, è l’approccio scelto per convincere gli alleati a fare a meno di Huawei e Zte, le due aziende accusate dall’intelligence di Washington di spionaggio per conto del governo cinese. Dal bastone alla carota, potremmo dire.
Se l’unica preoccupazione dell’ex presidente Donald Trump era – frutto della sua tendenza a mosse unilaterali – insistere con i Paesi amici affinché non facessero affidamento su quei fornitori, il suo successore Joe Biden appare disposto a mettere sul piatto anche incentivi finanziari.
Perché se le agenzie d’intelligence mettono gli aspetti legati alla sicurezza davanti a quelli economici, spesso le aziende private incaricate di realizzare le rete di quinta generazione fanno l’opposto rivolgendosi dunque a quei cosiddetti “fornitori ad alto rischio” che però si presentano sul mercato con prezzi inferiori.
Nelle scorse settimane su Formiche.net avevamo raccontato le rivelazioni del Wall Street Journal circa l’impegno dei diversi governi occidentali a valutare sostegni finanziari al fine di rafforzare la concorrenza (attraverso standard aperti) stimolando dunque l’innovazione e spingono verso il basso i costi per gli operatori, e di conseguenza per i clienti.
È lo stesso quotidiano finanziario a pubblicare una sorta di seconda puntata di quell’articolo. Lo fa collegando gli sforzi statunitensi all’iniziativa “Build Back Better World” decisa nel corso del G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia, come alternativa alla Via della Seta cinese. E con una breve ma efficace dichiarazione di Stephen Anderson, vice assistente segretario del dipartimento di Stato che si occupa di telecomunicazioni e tecnologia (con un passato all’ambasciata di Roma): “L’amministrazione Biden-Harris vede la sicurezza del 5G come una priorità assoluta”.
I funzionari statunitense sono pronti a offrire, nei prossimi mesi e anni, formazione a politici, autorità di controllo e accademici stranieri che si occupano dell’implementazione delle reti 5G nei vari Paesi. A guidare l’iniziativa, scrive il Wall Street Journal, c’è il Commercial Law Development Program del dipartimento del Commercio, la cui missione è rafforzare la politica estera statunitense collaborando direttamente con i governi stranieri su questioni tecniche e legali. È pronto anche un manuale che prende il Regno Unito a modello visto il bando imposto dal governo britannico sulle forniture cinesi.
Il Congresso sta lavorando parallelamente. Una proposta di legge, il Transatlantic Telecommunications Security Act presentato dalla deputata democratica Marcy Kaptur e sostenuta da un folto gruppo bipartisan, è stata presentata il mese scorso per permettere ai Paesi dell’Europa centrale e orientale di accedere ad aiuti specifici sul 5G. “Sono Paesi a rischio”, ha detto la deputata.
Dare questa possibilità agli Stati di quell’area rappresenta una novità, visto che prima era limitata ai Paesi in via di sviluppo (caso di “successo” recente è quello etiope, in cui una cordata sostenuta dagli Stati Uniti con prestiti fino a 500 milioni di dollari ha battuto la rivale finanziata da Pechino per la realizzazione di una nuova rete wireless nazionale).
Alcuni Paesi sempre più propensi ad ascoltare e accogliere le argomentazioni statunitensi contro Huawei (come la Romania, che ha recentemente bandito il colosso cinese dal suo 5G) rispetto ad altri (come l’Ungheria di Viktor Orbàn, definita da Zack Cooper, ricercatore dell’American for Enterprise Institute, in una recente intervista a Formiche.net, come l’anello debole su cui punta la Cina per sfondare nell’Unione europea).
“Diversi Paesi”, conclude il Wall Street Journal, “hanno anche aderito al programma Via della Seta di Pechino, in cui le istituzioni sostenute dal governo cinese finanziano e costruiscono in gran parte autostrade, porti e altre infrastrutture”. Si parla soprattutto di Europa centrale e orientale, ma è difficile non chiedersi se il piano possa coinvolgere anche l’Italia, che oggi sta ripensando il suo coinvolgimento nel progetto cinese dopo essere stato nel 2019 il primo Paese del G7 a firmare un Memorandum d’intesa con Pechino. Anche perché per ora i governi che si sono occupati di 5G, quelli di Giuseppe Conte e quello di Mario Draghi, hanno imposto diverse prescrizioni sulle forniture cinesi ma soltanto un veto attraverso l’esercizio dei poteri speciali (e in attesa che il Perimetro di sicurezza nazionale cibernetica entri in funzione).