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Arriva uno tsunami di capitali da Pechino. Per addolcire l’ostilità occidentale?

Il governo del Dragone toglie le briglie a quasi 150 miliardi di fondi privati, pronti a riversarsi nelle economie d’Occidente. Merito anche dello yuan apprezzato sul dollaro e della necessità di aggredire le industrie più fragili. Pensare che fino a ieri succedeva l’esatto contrario. Intanto però il too big to fail non sembra valere più in Cina e Huarong può, forse, fallire

Pensare che fino a pochi anni era lo spauracchio del Partito comunista e della autorità ad esso sottoposte. Ma oggi, la fuoriuscita di capitali non fa più paura alla Cina. Sarà stata la pandemia o forse la necessità di attaccare dalle fondamenta le economie più fragili, facendo scattare quella trappola del debito spesso e volentieri micidiale. Fatto sta che nei giorni del G7 di Cornovaglia che ha ridato anima e corpo al fronte internazionale per la salvaguardia degli interessi d’Occidente, a Pechino è stato ufficializzato il cambio di rotta.

FUGA DALLA CINA

Non più sorveglianza armata contro gli imprenditori e i fondi pronti a far fuggire miliardi di capitale all’estero. Niente più timore di un indebolimento dello yuan in favore del dollaro a causa di un’emorragia di capitale, ma spinta all’investimento di 147 miliardi di dollari di capitale. Proprio in queste ore, il governo della Repubblica Popolare ha infatti autorizzato un gigantesco flusso in uscita di fondi per un totale di quasi 150 miliardi di dollari. Un’operazione dalla chiara matrice politica, visto che, come racconta il Financial Times, il traghettamento dei capitali all’estero seguirà un preciso schema predisposto dagli stessi regolatori per gli investitori.

IL RUOLO DELLO YUAN

Uno schema cucito su misura per le esigenze di tali fondi, che consentirà agli stessi, tra le altre cose, di accedere ad asset extra-Cina (magari grandi industrie) mediante il supporto delle banche e di altre istituzioni finanziarie. La mossa è stata tuttavia resa possibile da condizioni monetarie diametralmente opposte da quelle degli anni scorsi, quando la valuta cinese era decisamente più debole del dollaro. Per questo, allora, occorreva frenare il più possibile l’emorragia di capitali. Oggi che invece lo yuan si è apprezzato in modo stabile sul dollaro (+10% nell’ultimo anno, ma il biglietto verde mantiene ben salda la sovranità monetaria nel globo), allora è possibile allentare le maglie e permettere la fuoriuscita del capitale. Ufficialmente per alleggerire la pressione al rialzo sullo stesso yuan e calmare la preoccupazione sui prezzi elevati degli asset in Cina, a cominciare dalle materie prime. Ma è molto probabile che quasi 150 miliardi di capitale cinese in giro per il mondo siano un buon modo per aumentare la presa su alcuni segmenti vitali dell’economia occidentale.

QUANDO I RISPARMI ERANO OSTAGGIO DI PECHINO

Rimane il cambio di passo con un passato fatto di controlli stringenti sui capitali cinesi, con i risparmi delle famiglie puntualmente incanalati verso i mercati interni. L’apice della stretta però si è raggiunta nel 2017, quando lo yuan toccò i minimi sul dollaro dal 1994. In quell’anno, il governo centrale decise che qualsiasi pagamento all’estero superiore ai cinque milioni di dollari dovesse essere sottoposto al nulla osta delle autorità centrali. Di più. Lo stop agli accordi che prevedono investimenti all’estero superiori ai dieci miliardi di dollari, le acquisizioni e le fusioni superiori al miliardo che esulino dal core business aziendale e gli investimenti nel settore immobiliare che siano superiori al miliardo.

TOO BIG TO FAIL. O NO?

La decisione cinese arriva comunque in un momento molto delicato per le finanze cinesi. Come raccontato a più riprese da questo giornale, Pechino sta scontando gli effetti di un debito pubblico letteralmente sfuggito di mano e che giorno dopo giorno sta erodendo la solidità finanziaria dell’ex Celeste Impero. Al punto che, secondo un report di Goldman Sachs, citato da Bloomberg, lo slogan too big to fail, reso famoso negli Stati Uniti dopo il crack di Lehman Brothers (2008) non sarebbe più la stella polare dell’intervento di Stato. In altre parole, le autorità cinesi non sarebbero più disposte a salvare a tutti i costi le varie Huarong&Co (il colosso pubblico, gestore del debito cinese, a un passo dall’insolvenza dopo il mancato rimborso di alcuni bond).

“C’è stato un notevole aumento delle insolvenze da parte delle imprese statali cinesi dalla fine del 2019”, ha scritto Goldman Sachs “e alcuni dei mutuatari che di recente non sono riusciti a rimborsare il debito come China Fortune Land Development Co hanno avuto grandi quantità di obbligazioni in circolazione, ma non rimborsate. E così anche per le grandi aziende o per gli enti statali, i responsabili politici sono molto meno disposti a garantire il supporto, riducendo le probabilità di effettuare salvataggi completi rispetto al passato”. Too big to fail? Forse no.

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