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Minimum tax, buona la prima. Ma ora viene il difficile. La versione di Visco

L’ex ministro di Tesoro e Finanze: l’accordo al G7 ha la sua importanza perché rompe con un passato fatto di indulgenza fiscale. Però si poteva fare di meglio, un’aliquota al 15% è piuttosto bassa e avvantaggia soprattutto le imprese americane. L’Irlanda? Prenderà una batosta, perché non converrà più pagare le tasse lì

Non basta un accordo politico a rivoluzionare il fisco mondiale. Certo, quello arrivato dal G7, l’intesa di massima su una minimum tax al 15% sui profitti delle multinazionali, è un segnale e non può essere ignorato. Il fatto è che la fase operativa rischia di dimostrarsi più complessa del previsto, soprattutto se l’obiettivo (dichiarato) è quello di estendere l’imposta globale a tutta l’area Ocse. Tanto per cominciare c’è da superare la resistenza ex post della Gran Bretagna, scopertasi improvvisamente preoccupata, all’indomani dell’annuncio sull’accordo per bocca del Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak, che una tassa flat possa impattare rovinosamente sui profitti delle aziende con base a Londra.

E poi, c’è la questione irlandese. La minimum tax al 15% non è troppo distante dall’imposta irlandese sui redditi societari, che è al 12,5% e che finora ne ha fatto un paradiso fiscale. E poi, come afferma un’analisi dell’Istituto Bruno Leoni, non sarà che togliendo di mezzo i paradisi fiscali alla fine si faccia venire meno anche la propensione degli Stati ad abbassare le tasse, recando così un danno alle piccole e medie imprese? Formiche.net ne ha parlato con Vincenzo Visco, economista e più volte ministro del Tesoro e delle Finanze, nonché promotore della prima ora di questo tipo di imposte.

“Facciamo una premessa. Quello arrivato dal G7 è un segnale sì politico peraltro strombazzato con canto e contro-canto. Ma assolutamente non trascurabile e di sostanza. Perché passa il messaggio che le multinazionali non possono continuare a eludere le tasse. E questo è certamente un punto di rottura rispetto al passato”, spiega Visco. “Detto questo certamente, ci sono almeno due criticità. Primo, si poteva fare qualcosa di più. Un’aliquota al 15% è molto bassa e per giunta vicina all’imposta applicata in Irlanda, che è al 12,5%. Non sarebbe stato male osare qualcosa in più. E poi, l’altra criticità, è che questa tassa flat globale tutto sommato bassa va nei fatti a beneficio essenzialmente degli Stati Uniti. E questo perché il grosso delle holding mondiali sono negli Usa e producono in loco, mentre negli altri Paesi c’è poco. Basti pensare all’Italia le cui grandi aziende sono a partecipazione pubblica e pagano i dividendi al Tesoro.” Nonostante tutto, “la minimum tax è un passo in avanti verso un’idea di fisco globalizzato”.

Visco insiste poi sul caso irlandese. “Io sono certo che l’Irlanda prenderà una batosta non da poco, se la domanda è se la minimum tax rappresenta la fine dei paradisi fiscali. Con un’imposta al 15%, vicina a quella irlandese, converrà decisamente meno passare per quel Paese. Non mi stupisce che Dublino possa arrivare a perdere 2 miliardi di euro all’anno. Certamente tutto si dovrà vedere alla prova dei fatti, perché non basta approvare l’imposta, bisogna applicarla bene e farla pagare anche”.

“Allargando la discussione”, prosegue Visco, “se mi è consentito, faccio notare come al di là dell’accordo in sé, l’Europa dovrebbe in qualche modo fare un altro passo in avanti. Mi spiego, la minimum tax è una cosa, ma l’Ue dovrebbe cominciare a ripartire tra i Paesi tutti i profitti delle stesse multinazionali. Insomma, va bene introdurre nell’ordinamento internazionale il principio della tassazione unitaria dei gruppi multinazionali ma anche la ripartizione di una parte dei loro profitti tra le giurisdizioni fiscali dei singoli Paesi in base a criteri oggettivi di fatturato. Qualcosa per evitare concorrenza sleale eccessiva. Una misura che non è passata per l’opposizione dei paradisi, Irlanda in testa”.

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