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Il Dragone rosso vede nero. Le insolvenze cinesi toccano il record

Nei primi sei mesi dell’anno le aziende della Repubblica Popolare hanno accumulato 116 miliardi di yuan in debito insoluto nei confronti dei sottoscrittori di bond, raggiungendo cifre mai viste prima. E per la fine del 2021 si prevede un nuovo record. E se fosse tempo di resuscitare il too big to fail?

Mai così vicina al baratro. La Cina dal Pil al massimo dei giri (+18,3% nei primi tre mesi dell’anno) si ritrova ad accarezzare l’incubo dell’insolvenza. Non è la prima volta che il Dragone rosso si ritrova in seria difficoltà (qui l’intervista all’economista Carlo Pelanda) a causa delle precarie condizioni di molte grandi imprese cinesi, indebitate con il mercato a seguito dell’emissione di centinaia di miliardi di bond, ma ad oggi insolventi verso quegli stessi investitori che hanno prestato denaro e liquidità.

Il problema è molto serio e i casi Huarong e Ping An, tanto per citare i due più famosi, stanno lì a dimostrarlo. Il debito societario cinese rischia di scatenare una crisi di panico tra gli investitori molto simile a quella vista 13 anni fa con il crack di Lehman Brothers. Huarong, a dire il vero, qualcosa ha già sperimentato la scorsa primavera quando la mancata pubblicazione dei risultati annuali ha provocato un crollo delle azioni (il titolo è ancora sospeso dalle contrattazioni), senza precedenti. Adesso il debito corporate ha raggiunto la soglia di guardia.

Ad oggi gli emittenti di obbligazioni societarie cinesi, la maggior parte aziende a controllo pubblico, sono inadempienti per circa 116 miliardi di yuan (18 miliardi di dollari) nei primi sei mesi del 2021. Si tratta della cifra più alta mai raggiunta dal segmento corporate cinese fin dalla fondazione della Repubblica Popolare, oltre 70 anni or sono. In altre parole, le società del Dragone non sono mai state così inadempienti verso il mercato. Ed è molto probabile che le insolvenze totali per l’intero anno superino ampiamente il record passato, registrato nel 2020, di oltre 187 miliardi di yuan.

I mancati pagamenti ai sottoscrittori di di bond stanno allarmando non poco gli investitori stranieri, con il risultato che i rendimenti dei titoli stanno schizzando sulla spinta dell’aumento del rischio. Per alcune aziende addirittura i rendimenti sono aumentati del 10% negli ultimi quattro mesi.

A Pechino c’è una certa preoccupazione, al punto che il governo cinese potrebbe anche tornare sui suoi passi, ovvero a quel too big to fail, ufficiosamente abbandonato proprio poco tempo fa. Lo scorso febbraio, un tribunale della Repubblica Popolare ha accettato una dichiarazione di fallimento del colosso dei viaggi Hna Group nell’ambito di un processo di chongzheng (riorganizzazione). E marzo, anche Tianjin Airlines, di proprietà del governo municipale di Tianjin, ha intrapreso lo stesso processo. Per non parlare del produttore di chip cinese Tsinghua Unigroup, ripetutamente insolvente sulle obbligazioni denominate in dollari.

Non può stupire, alla luce di tutto questo, l’impellente bisogno di liquidità della Cina. Lo stesso Pelanda, motivando la decisione della Cina di apporre una tassa del 15% sulle esportazioni di acciaio (il Dragone è il primo produttore al mondo) ha spiegato come “la decisione cinese può rappresentare essenzialmente due cose. La prima, una qualche forma di preparazione negoziale con gli Stati Uniti, come a dire che se qualcuno rompe alla Cina le scatole su una cosa, allora Pechino aumenta i costi commerciali di un bene. Questa motivazione avrebbe il suo senso geopolitico, in una logica di scambio, insomma”.

Ma “la seconda ragione che può stare a monte di questa decisione è finanziaria: la Cina è messa male da un punto di vista finanziario e per questo ha bisogno di soldi per alimentare il suo enorme debito che poi è un vero e proprio buco. Senza considerare che la crisi bancaria non è stata risolta, molti progetti cinesi sono oggi depotenziati e la via della Seta è in crisi. In più, è in atto una stretta fiscale sulle imprese finora favorite dal Pcc”.



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