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Afghanistan, il team Biden cerca un capro espiatorio?

Il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan è finito nel mirino di dem ed esperti di politica estera. Ma c’è chi punta il dito contro Khalilzad, inviato per l’Afghanistan nominato da Trump (ma confermato da Blinken)

Jake Sullivan è ancora il “golden boy” di Washington DC?

La sua esperienza con il governo inizia nel 2009 e dura per le due amministrazioni di Barack Obama: prima vicecapo di gabinetto di Hillary Clinton al dipartimento di Stato e direttore dell’Unità di programmazione; poi consigliere del vicepresidente Joe Biden e regista dell’accordo nucleare con l’Iran. Oggi, a 44 anni, è di nuovo alla Casa Bianca, sempre con Biden che adesso è presidente. È il più giovane consigliere per la sicurezza nazionale negli ultimi 60 anni (McGeorge Bundy ne aveva 42 quando nel 1961 lo divenne di John Fitzgerald Kennedy).

Ora, però, è finito nel mirino del “Blob”. Scrive Politico: “Per la sua difesa delle decisioni dell’amministrazione Biden riguardo al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, è più probabile che Sullivan trovi alleati in persone come Matt Duss, consigliere del senatore Bernie Sanders, e nel non-interventista Quincy Institute, piuttosto che sulle pagine di organi della Beltway come Foreign Affairs, dove era solito scrivere saltuariamente degli articoli”.

Politico cita Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, che anche a Formiche.net aveva spiegato che pur essendo d’accordo con la decisione di ritirarsi, l’esecuzione “è stata semplicemente orribile, sotto tanti punti di vista. A partire dallo studio degli scenari e delle tempistiche. Era evidente che le forze di sicurezza afgane non fossero preparate per combattere e impedire da sole la conquista dei Talebani”. Al giornale americano Bremmer ha dichiarato che “il processo politico deve essere più inclusivo di quanto non lo sia stato finora. Davvero non hanno bisogno dei consigli dei vari segretari di gabinetto o degli alleati o degli alti generali del Pentagono?”.

La Casa Bianca ha risposto all’articolo di Politico con molte email e chiamate, ma alla fine ha rifiutato di commentare. Ma ha sostenuto che il processo guidato da Sullivan è stato inclusivo, equo, e che il Pentagono e le altre parti interessate hanno avuto tutto il tempo per esprimere le loro opinioni.

La pressione sulla Casa Bianca è forte. La scorsa settimana, Brett Bruen, funzionario del dipartimento di Stato sotto Obama, ha scritto un editoriale su USA Today chiedendo al presidente Biden di rivedere il suo Consiglio per la sicurezza nazionale, puntando il dito contro Sullivan in particolare. “Mentre conosce tutte le teorie e gli argomenti accademici in politica estera, la sua esperienza all’estero è meno solida. Può portare alla disconnessione tra le idee e l’attuazione”, ha scritto Bruen. La sua linea, spiega Politico, è abbastanza diffusa tra gli addetti ai lavori. Nel fine settimana un anonimo esponente dem al Congresso ha detto al New York Times che alcuni nel partito stavano ragionando sull’ipotesi che eventuali dimissioni di Sullivan avrebbero aiutato a “resettare la narrazione”, un elemento che ha attirato l’attenzione della Casa Bianca, secondo i funzionari dell’amministrazione.

Sullivan manca d’esperienza secondo alcuni nel “Blob”. “È molto adatto a situazioni di alta pressione, ma non è stato messo alla prova – non si viene messi alla prova da capo della pianificazione politica al dipartimento di Stato”, ha detto un alto funzionario del Dipartimento della Difesa nell’amministrazione Obama.

Nonostante le critiche, non ci sono segnali che il presidente Biden abbia perso la fiducia in Sullivan. Per rendersene conto basta notare che il consigliere della sicurezza nazionale continua a tenere gli incontri con la stampa. Molto dipenderà dall’approccio del presidente Biden: se sceglierà di muoversi come i precedessori, potrebbe cadere una testa.

Nel caso, quello di Sullivan non è l’unico nome che circola. Bruce Riedel, direttore dell’Intelligence Project della Brookings Institution, intervistato nei giorni scorsi da Formiche.net ha espresso una posizione piuttosto diffusa a Washington: il segretario di Stato Antony Blinken è “responsabile” di “aver mantenuto [Zalmay] Khalilzad (inviato speciale per l’Afghanistan, nominato dall’amministrazione Trump e confermato da quella Biden, ndr) nel processo di Doha dopo” che questi “aveva negoziato l’anno scorso il pessimo accordo con i Talebani, che non l’hanno mai rispettato”.

Se fosse lui il capro espiatorio, Biden confermerebbe che le responsabilità dell’Afghanistan ricadono sull’amministrazione Trump. Ma basterà a placare il “Blob”?



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