Se è vero, come dice Gianfranco Polillo, che è necessario guardare al rapporto debito e Pil e non solo la crescita del primo, è altrettanto vero che in Italia la preoccupazione riservata alla spending review è decisamente calata, non tenendo conto dei sacrifici necessari che uno Stato come l’Italia dovrebbe fare per fargli fronte
Gianfranco Polillo è stato allievo di Federico Caffè. Anche per questo la sua opinione da economista deve essere tenuta in debito riguardo. E poi è un amico, non da oggi. Il suo contraddittorio regala autorevolezza all’allarme che mi sono permesso di lanciare su Formiche.net sull’incessante crescita del debito pubblico. Ha ragione Polillo a ricordare che la semplice grandezza del debito poco racconta del rapporto necessario da osservare, quello tra debito e Pil.
Essendo stato sottosegretario durante il governo Monti, Polillo dovrebbe tuttavia ammettere che la preoccupazione riservata alla spending review è decisamente calata nel nostro Paese. E nel nostro governo. Basterebbe porre attenzione al passaggio, non solo generazionale, consumatosi tra Piero Giarda e Laura Castelli. La stessa memoria di Carlo Cottarelli si è sbiadita, forse un po’ complice lui stesso, colpevole – si fa per dire – di aver lasciato l’incarico di Commissario alla revisione della spesa pubblica per il più ricco mandato di direttore esecutivo nel Board del Fondo Monetario Internazionale.
In un’economia da dopoguerra – come rammenta Polillo – si deve guardare al Pil che cresce, piuttosto che al debito (sperando che in questo caso a crescere sia quello “buono” e non quello “cattivo”). Ma proprio in un’economia da dopoguerra si devono mettere in conto anche i sacrifici; e quelli che stanno facendo gli italiani – come individui, famiglie, lavoratori dipendenti e autonomi, professionisti, imprese – dovrebbero riverberare anche in quelli che è capace di fare lo Stato, in tutte le sue Amministrazioni.
Non c’è amministratore pubblico che possa voltare lo sguardo da un’altra parte, quando si accorge che un rubinetto è aperto e perde acqua. E l’acqua che sta uscendo dai rubinetti continuo a credere che sia troppa e troppo fuori controllo. Dalla generosità di erogazione della cassa integrazione – non sempre dovuta, credo – all’irresponsabile distacco di assegni per reddito di cittadinanza, pur a fronte del quotidiano stillicidio di truffe e controlli laschi: 750 milioni al mese penso che siano troppi, anche per gli effetti negativi che producono sul mercato del lavoro, inquinato da una moneta cattiva, che come sempre sta finendo per scacciare quella buona.
I sacrifici di imprese e lavoratori sono quelli che stanno facendo rimbalzare il Pil italiano, con una percentuale che ci mette in testa all’Europa. Ma l’amico Polillo sa che anche le crescite percentuali sono l’esito di un rapporto, di un confronto, tra quello che c’era e quello che c’è. Non è detto quindi che la pur ben augurante cifra del 5,7% (5,5 o 6? Non si è ancora capito bene) con davanti un segno più, sia sufficiente per dirci che siamo veramente cresciuti, come Paese e come economia nazionale. Siamo stati per troppi anni la cenerentola dell’incremento del Pil europeo, per poter pensare che un paio di trimestri spumeggianti siano sufficienti per colmare solo l’handicap cumulato nel tempo.
Dobbiamo sperare che il rimbalzo del Pil diventi strutturale, ma allora dovremmo poter riconoscere tra gli atti del governo qualche solido esempio di investimento, di sostegno alle imprese, di crescita che non si limiti al sussidio o al bonus. Quanta parte di quel +5,7% di Pil è dovuta a sussidi e bonus? Temo che dai monopattini alle biciclette, fino all’ecobonus nell’edilizia, molta parte di quel segno “più” sia ancora da imputare a nuovo debito, opportuno forse, ma forse anche troppo generoso.
Le riforme strutturali, tanto spesso evocate nella stesura del Pnrr, sono di là da venire. Giustizia? La cosiddetta riforma Cartabia è stata solo un pasticcio che riguarda – e malamente – un pezzo della giustizia penale, nulla cambia e rinnova sulla giustizia civile, tanto necessaria al sistema economico e all’attrazione di capitali. Le regole del nuovo mercato del lavoro? Non pervenute, tutto rinviato alla Legge di Bilancio, quindi a un anno data dall’insediamento del governo. Fisco? Era in testa ai temi del discorso programmatico di Mario Draghi in febbraio, ma le imprese (e gli italiani in generale) non hanno visto nulla. Pensioni? Rinviate. Grandi Opere? La palla è stata lanciata in tribuna più volte, fino a riproporre una vecchia e criticatissima idea del governo Berlusconi (il Ponte sullo Stretto di Messina), ma oltre ai cantieri sulla rete autostradale non mi pare sia stato realizzato alcunché.
Possiamo tacere per carità di patria – sperando che finisca tutto in un bluff – sul mostro che si sta costruendo sulle due sponde di via Veneto (tra Mise e ministero del Lavoro) a proposito di delocalizzazioni. Un mostro contro le imprese, quindi contro la crescita economica reale del Pil. Tutto sembra camminare nel solco insufficiente del Decreto Dignità. Nulla nella direzione del sostegno alle imprese. Anche il ministro Giorgetti – che si vanta di essere tra i pochissimi a poter dare del tu a Mario Draghi, e che si propone come tutore degli interessi del Nord imprenditoriale ancor prima che leghista – non ha dato segni di vita concreti. Si è dissociato dall’idea Orlando-Todde sulle delocalizzazioni, ma sta finendo per farci rimpiangere Carlo Calenda e la sua Industria 4.0.
Siamo in attesa degli effetti miracolosi di un Pnrr che porterà in sei anni 240 miliardi (in gran parte di nuovo debito), a fronte di 800 miliardi annui di spesa pubblica. C’è qualcosa che non va, nel rapporto. Non vorrei per questo essere iscritto al club dei pessimisti, così come non mi basterebbe vedere l’amico Polillo partecipare a quello degli ottimisti. Vorrei un sano realismo che potesse farmi elencare gli atti di politica economica del governo capaci di produrre “debito buono”, cioè investimenti, concorrenza e mercato del lavoro più dinamico ed efficiente. Ancora non ne ho visti. Non credo che sia solo miopia o disfattismo. Così come non credo che un buon padre di famiglia possa disinteressarsi di tenere i conti sotto controllo, di perseguire la spesa eccessiva, di accentuare i controlli. Allo Stato e a chi lo rappresenta pro tempore spetta proprio il compito del pater familias.