L’economista e docente Luiss a Formiche.net: il ministro Franco ha ragione, un’operazione di sistema con Unicredit è l’unica strada, Siena non può più camminare da sola e una ristrutturazione del Monte per mano pubblica costerebbe troppo. Il sistema bancario italiano? Reggerà l’urto, ma servono fusioni anche locali
Ogni estate ha la sua partita. E questa estate italiana divisa tra le speranze del vaccino e la paura della variante Delta non è da meno. Unicredit ha mosso i primi passi verso il Monte dei Paschi, abbastanza decisa a rilevare la parte sana della banca più antica del mondo, nella versione però priva di Npl e rischi legali (valore 6 miliardi, circa). E, come raccontato in più occasioni da Formiche.net, consentendo il disimpegno dello Stato azionista al 64% di Siena entro metà 2022, come pattuito con l’Europa.
Il governo, per bocca del ministro dell’Economia Daniele Franco, è stato chiaro: non c’è alternativa a un’operazione di sistema con Unicredit, essenzialmente per due ragioni. Primo, nel semestre Mps ha messo a segno un utile di 202 milioni, ma la perdita da 1,6 miliardi riportata nel 2020 pesa come un macigno. E poi gli stress test del 31 luglio hanno confermato ancora una volta il bisogno di quell’aumento di capitale da 2,5 miliardi. Secondo, lo Stato italiano deve necessariamente uscire dal capitale di Siena, o quanto meno non essere più il socio di controllo. Formiche.net ne ha parlato con Marcello Messori, economista della Luiss e grande esperto di banche.
Il ministro Franco ha detto chiaro e tondo che non c’è un’alternativa vera e credibile alla cessione di Mps a un altro istituto. Condivide tale impostazione? E perché?
Ritengo che il ministro Franco abbia inteso sottolineare tre punti che, sulla base delle informazioni disponibili, appaiono ben fondati. Primo, ha affermato che Mps non ha né un modello di attività né una consistenza patrimoniale e un bilancio adeguati per recuperare efficienza e competitività come entità indipendente o – peggio – come polo aggregante. Secondo, ne ha indotto che – allo stato attuale – il futuro di Mps è l’incorporazione in un altro gruppo bancario. E ha aggiunto che, date le fragilità strutturali della banca senese certo non nascoste da un semestre positivo largamente influenzato dal forte rimbalzo macroeconomico e dalle temporanee protezioni statali al settore creditizio, non vi è un affollamento di potenziali acquirenti. Terzo, ha quindi concluso che non vi sono credibili alternative a una vendita di Mps a Unicredit.
Allora non c’è alternativa alla cessione del Monte dei Paschi…
Il problema è che l’azionista pubblico non è nelle condizioni, finanziarie, temporali e istituzionali, per perseguire la sola alternativa sensata al quadro descritto: realizzare una profonda ristrutturazione di Mps per renderlo appetibile come preda sul mercato e, poi, cederlo a condizioni meno penalizzanti.
Come è stato possibile arrivare a questo?
Ciò dipende dalla catena di errori accumulati nei venti anni passati. E, per rimanere ai tempi recenti, al fatto che, per più di un anno, il 2016, non si è preso atto della situazione fallimentare della banca senese e ci si è baloccati nella speranza di improbabili ricapitalizzazioni di mercato o di taumaturgici interventi risolutivi da parte del Fondo Atlante. E, poi, si è ricorso a un intervento pubblico costoso ma – come è dimostrato da quanto sta accadendo – inefficace.
Mettiamo per un attimo che si abbandoni la strada della fusione…
Oggi, Mps si trova in una situazione molto simile a quella delle banche venete nel 2017 (indici patrimoniali, di fatto, negativi in stress test con condizioni avverse) con l’aggravante che sarebbe ancora più problematico sostenere che non si tratta di una banca di pubblico interesse da sottoporre a risoluzione europea. Per giunta, oltre a essere problematica rispetto agli impegni europei, una ristrutturazione pubblica sarebbe ancora più costosa rispetto alla pur onerosa cessione a Unicredit e affonderebbe nella palude degli interessi dei partiti politici di governo. Il risultato sarebbe che, fra un paio d’anni, ci troveremmo in condizioni ancora peggiori di quelle attuali dopo aver dilapidato ulteriori risorse pubbliche. Per tale insieme di ragioni condivido la posizione del ministro Franco, anche se ne colgo le implicazioni problematiche.
Messori, veniamo al merito dell’operazione con Unicredit. Mps è una banca in crisi da molto tempo, con perdite 2020 per 1,6 miliardi di euro. Trova corretto cedere solo la parte sana all’istituto milanese?
Questa domanda mette a nudo l’altra faccia del problema: qual è la convenienza di Unicredit ad acquisire Mps? Anche in questo caso, la risposta richiederebbe una informazione approfondita circa le strategie presenti e future del potenziale acquirente, di cui io non dispongo. Ciò che comunque appare evidente all’esterno è che, negli anni passati, Unicredit non ha realizzato un efficiente modello di attività. In una fase in cui le banche con attività tradizionali traevano gran parte della loro redditività dall’internalizzazione delle fabbriche prodotto e dall’espansione delle quote di mercato (economie di scala), Unicredit ha ceduto quasi tutti i suoi gioielli di famiglia e ha proceduto a una drastica riduzione dei rischi e dei costi. Ciò ne ha migliorato i requisiti patrimoniali e ha prodotto profitti di brevissimo termine, ma ha anche azzerato tutte le fonti non contingenti di redditività. Per giunta, in quegli stessi anni, Unicredit non ha davvero puntato su attività bancarie meno tradizionali.
Dunque?
Tali scelte preludevano, a mio avviso, a un’integrazione di Unicredit in un gruppo bancario europeo di grandi dimensioni. Dal momento che l’integrazione non si è realizzata, la nuova gestione di Unicredit ha l’onere di definire una chiara strategia che approdi a un nuovo efficace modello di attività. In questo senso, anche considerando i vantaggi fiscali, le ricapitalizzazioni e le garanzie che saranno offerte dal Mef, l’acquisizione di Mps da parte di Unicredit sembra preludere a un ritorno a un modello di gruppo bancario tradizionale che – almeno in Italia – sia competitivo con l’altro grande giocatore nazionale (Intesa, ndr). Molto dipenderà, però, dallo specifico perimetro dell’effettiva acquisizione e dalle altre iniziative che saranno assunte dai nuovi gestori di Unicredit. Pertanto, appare scontato che Unicredit sia interessato alla sola parte sana di Mps. La vera partita si giocherà, piuttosto, su quali attività della parte sana siano giudicati congruenti con la sua strategia futura. Tale partita solleva problemi delicati.
Quali sarebbero?
Da una parte, è necessario che l’attuale azionista pubblico tuteli i dipendenti di Mps e il potenziale di sviluppo economico dell’area territoriale finora troppo dipendente dalla banca senese; è inoltre necessario che il Mef limiti gli esborsi pubblici richiesti dalla cessione. Dall’altra parte, è però anche opportuno che Unicredit non si trovi impelagata in interminabili e insolubili controversie locali che potrebbero condizionare l’acquisizione e compromettere il futuro di una componente essenziale dei mercati finanziari italiani ed europei. Per queste ragioni, io non darei per scontato né il perimetro di cessione delle attività di Mps né l’esito finale dell’operazione.
Il sistema bancario italiano sta fronteggiando la peggiore crisi socio-economica dal 1945 ad oggi. Che cosa si aspetta per i prossimi mesi?
Il tema è così complesso da non poter essere affrontato con poche battute. La mia risposta è, quindi, generica e parziale.
Sta bene…
Sono relativamente ottimista circa la solidità di una larga parte del settore bancario italiano, che ha migliorato i propri requisiti patrimoniali e ha accresciuto la propria capacità di gestione delle attività problematiche. Inoltre, non mi aspetto che in Italia la crescita dei crediti e delle altre posizioni problematiche (che pure avverrà) sia paragonabile, nel 2022-2024, a quella del periodo 2012-2016. Restano però almeno tre problemi.
Ovvero?
Il primo riguarda il fatto che permangono situazioni critiche. Mps è il caso più rilevante; ma vi sono vari gruppi bancari, di dimensioni medie e piccole, che denunciano condizioni precarie e che non hanno un futuro indipendente. Tali realtà vanno incorporate al più presto in gruppi finanziari più robusti, senza indulgere nella tentazione di aggregare fra loro situazioni deboli che finirebbero solo per accrescere le difficoltà attuali. Il secondo problema riguarda il fatto che la struttura di mercato del settore bancario italiano non è oggi efficiente: vi è la tendenza a un duopolio, che – nel medio periodo – condannerebbe all’inefficienza banche, medie per la dimensione nazionale ma piccole in chiave europea, che non hanno le economie di scala e di scopo adeguate per essere competitive e redditizie con modelli tradizionali di attività.
Allora serve un riassetto anche periferico del sistema bancario?
Ed è pertanto urgente che, senza lasciarsi accecare dal contingente aumento della loro profittabilità negli ultimi irripetibili trimestri e di quelli immediatamente successivi (che sono alterati dalle garanzie statali e dal rimbalzo macroeconomico), queste banche ristrutturino radicalmente il loro modello di attività oppure procedano a fusioni. Alcuni piccoli gruppi bancari stanno procedendo in tale direzione; ma il grosso sembra bloccato in strategie di corto respiro. Il terzo problema è che, ancor più di quello degli altri grandi paesi europei, il settore bancario italiano deve prepararsi a giocare un ruolo attivo e positivo in un mercato finanziario dell’intera area dell’euro, in cui si rafforza l’incidenza dei crediti non bancari e dei debiti di mercato e in cui si chiudono gli spazi bancari per la gestione dei sistemi di pagamento.
Si sente odore di Fintech, la nuova finanza, contrapposta a quella tradizionale…
L’ingente liquidità presente nel sistema economico, ma largamente parcheggiata, sollecita il settore bancario europeo a offrire una gamma di servizi finanziari che saranno – al contempo – più redditizi, più utili per l’economia reale e più esposti alla concorrenza di intermediari non bancari. Non credo che il settore bancario italiano possa raccogliere questa sfida limitandosi a disegnare modelli tradizionali di attività.