Una barca di proprietà di una società emiratina sequestrata lungo il Golfo Persico da una decina di uomini armati. L’arrivo in zona di un cacciatorpediniere americano, la fuga dei sequestratori. Chi sono i colpevoli? I sospetti sull’Iran e dell’Iran; la guerra ombra con Israele e Usa
La “Asphalt Princess” è libera, gli uomini armati che l’avevano abbordata prendendo in ostaggio l’intero equipaggio dalla serata di martedì 3 agosto, sono fuggiti. Scappati verso la costa emiratina, lasciandosi dietro un gommone. A bordo della Princess stanno tutti bene; la nave (un tanker usato per il trasporto di bitumi) sta rientrando in Oman scortata a distanza da un cacciatorpediniere americano. L’unità da guerra statunitense si era staccata dal gruppo da battaglia della “USS Ronald Reagan” che si trova nella regione; a bordo probabilmente le forze speciali pronte all’azione.
It seems something’s happened overnight with the Asphalt Princess. Having initially drifted towards Iran it picked up speed and is headed slowly back towards the Oman coast. Updates to follow. @LloydsList https://t.co/b9OvmgBukc pic.twitter.com/eev4PGlsou
— Richard Meade (@Lloydslisted) August 4, 2021
Dal pomeriggio di martedì, l’UKMTO, l’ufficio del governo inglese basato a Dubai che si occupa di monitorare i traffici commerciali nell’area del Golfo Persico, aveva alzato l’allarme su un potenziale sequesta ro, mentre circolavano informazioni anche su altre quattro imbarcazioni che avevano mandato via radio il messaggio di essere in stato “not under command” sempre attorno allo Stretto di Hormuz. Il collo di bottiglia del Golfo è dal 2019 centro dello sfogo marittimo della guerra ombra tra Iran e Israele e Stati Uniti.
Un confronto che ha come target preferenziale proprio certe imbarcazioni e che ha avuto media bassa intensità fino a pochi giorni fa, quando un altro tanker – il “Mercer Street” – è stato colpito, sempre appena fuori all’Oman, da due droni esplosivi che hanno ucciso due membri dell’equipaggio, un britannico e un romeno. Israele, che ha raccolto dati di intelligence per primo, ha condiviso le informazioni con Regno Unito, Romani e Stati Uniti, e adesso i quattro paesi sono praticamente certi che l’operazione sia stata condotta dai Pasdaran e meditano una rappresaglia congiunta.
Quanto accaduto nelle scorse ore 60 chilometri a est di Fajairah (il principale terminal petrolifero degli Emirati Arabi) rientra in queste dinamiche? È molto possibile, i sospetti ci sono, sebbene si stia parlando anche di pirateria. Per esempio: una nave anfibia iraniana ha attraversato quelle stesse acque qualche ora prima dell’“incident”: trasportava uomini-rana delle Sepāh che poi hanno lanciato l’assalto? Le indagini in corso, anche e soprattutto le testimonianze dell’equipaggio, forniranno chiarimenti, mentre l’Iran nega. Come fatto per l’attacco al Mercer Street.
L’Asphalt Princess batte bandiera panamense ma è di proprietà di una società emiratina, la Glory International (che per ora non commenta l’accaduto); un collegamento simile a quello della Mercer Street, liberiana di bandiera ma gestita da una company controllata da un magnate israeliano. Israele e regni del Golfo (su tutti Emirati a Arabia Saudita) sono gli obiettivi preferiti dei Pasdaran. Riad ha accusato l’Iran di “distruggere” la sicurezza marittima della regione attraverso il proprio corpo militare teocratico. Teheran sostiene che questi “episodi sospetti” contribuiscono a creare una “falsa atmosfera”.
L’Iran si discolpa dicendo, più o meno direttamente, che si tratta di montature per accusare la Repubblica islamica. E farlo, per altro, in un momento sensibile come l’inaugurazione del nuovo presidente, il conservatore Ebrahim Raisi. I Pasdaran stessi hanno parlato di “azioni ostili” contro l’Iran. Tradotto, ancora: gli iraniani dicono che si tratta di false flag, missioni condotte dai propri rivali per poi incolpare Teheran, renderlo non potabile dal punto di vista negoziale, e creare i presupposti affinché si inneschi un atteggiamento generale più ostile. In ballo il nuovo corso Raisi e prima ancora la possibilità di continuare o meno il dialogo per la ricomposizione dell’accordo nucleare Jcpoa.