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La Cina è ancora un buon posto dove investire? Dubbi e certezze di Goldman Sachs

Dopo il collasso di Evergrande, ormai abbandonato anche dai suoi azionisti, unito alla stretta sul Fintech, la banca d’affari americana si chiede se puntare i capitali sul Dragone è ancora un buon affare. Ecco la risposta…

Affidabilità, che poi fa rima con investimenti. Mai come in queste settimane c’è da chiedersi se la Cina travolta dalla crisi di Evergrande (che come da previsioni non ha pagato nemmeno le ultime cedole, relative a una trance di debito onshore da 84 milioni di dollari) e in piena crociata anti-Fintech possa considerarsi ancora un Paese nel quale investire i propri capitali. In Goldman Sachs se lo sono chiesto nel report dal titolo abbastanza chiaro Is China Investable?

Per trovare una risposta a questa domanda, la banca d’affari americana si è rivolta a quattro economisti di punta: Hui Shan, Chief economist di Goldman Sachs China, George Magnus dell’Università di Oxford, David Li dell’Università di Tsinghua e Jude Blanchette esperta del Csis.

Ebbene, c’è disaccordo tra i quattro economisti. Magnus e Blanchette, per esempio, credono che gli investitori esteri oggi dovrebbero pensarci tre volte prima di investire in Cina. Di diverso avviso gli altri due, secondo i quali la Repubblica Popolare è ancora un buon posto per fare affari, “perché le attuali regole non sono ancora in grado di compromettere i guadagni delle aziende”. Ancora, se Magnus e Blanchette vedono nell’agonia di Eevergrande e nella repressione tecnologica un freno alla crescita e un buon motivo per far fuggire gli investitori, Shan e Li non li considerano fattori così gravi e profondi al punto di compromettere la fiducia di risparmiatori e investitori verso la Cina.

Addirittura, secondo questi ultimi due, l’attacco del governo di Xi Jinping alle piattaforme Fintech (tra le altre cose proprio oggi la Banca centrali cinese ha dichiarato illegali tutte le transazioni in Bitcoin) sarebbe persino giustificato, perché lo scopo altro non è che porre fine a pratiche scorrette e monopoliste “che fino ad oggi hanno impedito alla Cina di raggiungere obiettivi sostenibili di crescita e socialmente responsabili di crescita. E per questo si è reso necessario intraprendere azioni per salvaguardare i dati dei consumatori e proteggere i lavoratori della gig economy“. Non è così per Magnus e Blanchette, i quali sostengono che l’aggressione cinese è per lo più motivata dalla sete di potere del governo e dalla voglia di aumentare il controllo su tutti i segmenti dell’economia. Insomma, di riaffermare il dominio assoluto sul settore privato.

Intanto, Joseph Lau, secondo azionista di Evergrande, ha deciso di sbarazzarsi di gran parte della sua partecipazione nel gruppo del mattone. Assieme alla moglie, Chan Hai Wan, ha venduto 138 milioni di azioni in due settimane e ha ridotto così del 41% la sua quota. La sua Chinese Estates, inoltre, ha venduto altri 109 milioni di azioni e, secondo Forbes, potrebbe presto liberarsi dei 751 milioni rimasti in suo possesso. Abbandonare la nave?

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