Secondo Micky Aharoson, analista del Jerusalem Institute for Strategy and Security ed ex senior director della politica estera al Consiglio di sicurezza israeliano, il Mediterraneo e il Medio Oriente stanno cambiando davanti ai nostri occhi perché innanzitutto alcune divisioni tradizionali stanno scomparendo. L’allineamento pragmatico verso forme di distensione è in atto da Ankara a Gerusalemme, da Abu Dhabi a Rabat
Il primo ambasciatore bahrenita in Israele della storia è arrivato a Tel Aviv martedì 31 agosto; Emirati Arabi e Turchia innalzano il dialogo ai massimi livelli; nella lite diplomatica tra Algeria e Marocco tutti i Paesi della regione sono allineati per trovare una soluzione (eccezione imbarazzante per l’Iran, che tuttavia su altri dossier si dimostra più aperto, come racconta il Summit di Baghdad). Nell’areale ampio del Mediterraneo allargato – la regione geografica e dunque geopolitica che si espande dal bacino marittimo fino al Medio Oriente, includendo così anche il Corno d’Africa) – è in corso una fase di distensione. Dinamiche che si snodano all’interno della naturale fascia di influenza dell’Italia, sulle quali Roma tiene occhi e relazioni aperti per chiare ragioni di interesse nazionale.
Nel giorno in cui l’ambasciatore Khaled al Jalhama arrivava a Tel Aviv per aprire la sede diplomatica del Bahrein, i ministri degli Esteri di Emirati Arabi Uniti e Turchia davano seguito con una loro conversazione alla telefonata tra l’erede al trono emiratino, Mohammed bin Zayed, e il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan; tutto dopo la visita ad Ankara del capo del Consiglio di sicurezza nazionale di Abu Dhabi. Prima di quella, l’ultimo viaggio di un alto funzionario turco o emiratino in uno dei due paesi risaliva al 2016, quando il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, era andato ad Abu Dhabi. In mezzo una escalation di tensioni sfociate fino allo scontro armato per procura in mezzo alla guerra civile libica; il conflitto diplomatico dal Golfo contro il Qatar, alleato turco; il confronto costante su tutta una serie di dossier dove la divisione intra-sunnita sull’interpretazione dell’Islam poteva sfogarsi.
Ora la guerra libica è su un percorso di stabilizzazione post-cessate il fuoco, il Golfo s’è riconciliato col Qatar, gli Emirati Arabi e altri Paesi hanno normalizzato le relazioni con Israele, la Turchia è in fase di gestione dell’attivismo avventurista nella regione mediterranea. C’è stata la pandemia, c’è stato l’innesco di dinamiche dialoganti volute dall’arrivo alla Casa Bianca dell’amministrazione Biden, c’è la necessità per tutti di vedere le cose in forma pragmatica. Il Medio Oriente e il Mediterraneo stanno cambiando davanti ai nostri occhi? Secondo Micky Aharoson, analista del Jerusalem Institute for Strategy and Security ed ex senior director della politica estera al Consiglio di sicurezza israeliano, sta cambiando innanzitutto nel senso che le divisioni tradizionali stanno scomparendo.
“Israele – spiega a Formiche.net – ha relazioni aperte con ex rivali o con ex partner che finora si sono assicurati che le relazioni fossero discrete. Una delle ragioni principali è che alcuni Paesi arabi hanno deciso di preferire il loro interesse nazionale alla causa palestinese. I Paesi arabi sono stanchi del conflitto e la cosiddetta Primavera araba ci ha ricordato che il conflitto israelo-palestinese ha poco a che fare con l’aumento del radicalismo e dell’instabilità nella regione”.
Le nuove relazioni tra gli Stati arabi e Israele si basano sulla nozione araba di “nemici comuni”, secondo Aharoson. L’analista intende i Fratelli Musulmani e l’Iran (nemici del mondo del Golfo, quello dello status quo, con cui comunque sono in corso contatti): “Poi chiaramente queste nuove relazioni si basano sul desiderio di godere dei benefici che Israele può fornire. Pensiamo all’intelligence e alla sicurezza, ma anche a settori come scienza e hi tech”, aggiunge.
”Ci sono anche alleanze che rafforzano queste nuove relazioni come l’Emgf (East Med Gas Forum) che portano Cipro e Grecia nelle partnership di nuova costituzione”, aggiunge Aharoson: “Tuttavia tutti stanno coprendo le loro scommesse. Con il desiderio degli Stati Uniti di ridurre la propria presenza nel Medio Oriente e la mancanza di una soluzione alla questione nucleare e sovversiva iraniana, dal Golfo stanno avviando un dialogo con l’Iran. Israele non può farlo, non in questo modo, quindi sta sviluppando capacità diverse e più forti per proteggersi”.
Il nuovo governo israeliano riceve molto credito dalla comunità internazionale e regionale – “che non è infinito”, precisa l’analista: “Presto cresceranno le aspettative per una politica israeliana costruttiva (il rafforzamento della fiducia, per esempio)”. Questo credito il primo ministro Naftali Bennett lo ha ricevuto recentemente di persona da parte di Joe Biden: Washington e Gerusalemme sembrano interessate alla ricostruzione di un rapporto rinnovato nel solco delle relazioni storiche.
È parte della necessità americana di concentrarsi su altri quadranti e disimpegnarsi dalla regione, tenendo però una forma di controllo da remoto. Necessità per raggiungere la quale i vari centri di potere – a Gerusalemme come ad Abu Dhabi, a Riad come ad Ankara o Tripoli, Algeri, Rabat, al Cairo o a Baghdad – devono allinearsi su un terreno di dialogo e verso forme di stabilizzazione pragmatica. Probabilmente più tattica che strategia per quegli attori in campo, almeno per il momento.