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Così l’Ue è stata con l’Iraq durante il voto. Parla Campomenosi

Il capo delegazione della Lega al Parlamento europeo racconta a Formiche.net la missione europea in Iraq durante le elezioni

Marco Campomenosi è un politico genovese (e calcisticamente genoano), capodelegazione della Lega all’Europarlamento, dove ricopre incarichi in diverse Commissioni e gruppi di lavoro. Tra questi, è membro della delegazione per i rapporti dell’Ue con l’Iraq. La scorsa settimana ha partecipato alla missione di osservazione delle elezioni irachene, che si sono tenute il 10 ottobre. Missione condotta con il formato dell’European Union ElectionObservation Mission (EU EOM), che l’Alto rappresentante Josep Borrell ha pensato per mostrare la vicinanza delle istituzioni di Bruxelles ai Paesi in transizione democratica. In una conversazione con Formiche.net ha raccontato questa esperienza (era l’unico italiano) che è “un riconoscimento di fiducia: significa che l’Europa crede che ci sia speranza che l’Iraq arrivi a certi miglioramenti nel suo processo democratico, e che dall’altra parte trova un Paese disposto ad accettare critiche e suggerimenti, parte del ruolo stesso della missione”.

L’Iraq è un Paese che ha una centralità storica nella regione mediorientale, parte di quel Mediterraneo allargato individuato dall’Italia come ambito geografico e geopolitico della propria proiezione strategica. È per ora governato da un esecutivo che lo ha messo nella posizione di portatore di mediazione all’interno di molti complicati dossier regionali (per dirne uno, iraniani e sauditi stanno portando avanti contatti diplomatici storici e lo stanno facendo a Baghdad). Ma è anche un territorio dove le questioni di sicurezza vanno dalle spurie dello Stato islamico (ancora attivo e su cui la Nato sta concentrando la sua missione di assistenza alle forze locali) alle dinamiche legate al gioco di influenza regionale progettato dai Pasdaran.

“C’è ancora parecchio da fare – spiega Camponemosi – e lo abbiamo visto nei tanti incontri che abbiamo avuto, sebbene limitati per ragioni di sicurezza (l’Is aveva minacciato attentati nei giorni delle elezioni, ndr). Abbiamo incontrato tutte le anime del Paese: diverse donne candidate, politici di ogni componente, i rappresentanti delle svariate minoranze tra cui i cristiani, e poi i giovani di piazza Tarhir“. Questi ultimi sono quelli del Movimento Tishreen (significa ottobre) che nell’autunno 2019 ha dato il via a una serie di proteste represse col sangue dalle milizie sciite (a quanto pare aiutate dai Pasdaran). Da lì è nato l’attuale governo di Mustafa Kadhimi e da lì sono state convocate le elezioni.

Quella europea era l’unica missione di osservazione composta da politici eletti, dunque gli europarlamentari sono stati gli unici in grado di assumersi una responsabilità politica in quello che rappresentavano: “Il lavoro è stato proficuo – spiega l’europarlamentare italiano – ed è stato fatto anche in stretta collaborazione con gli ambasciatori, come il nostro Bruno Antonio Pasquino, che sono molto ben accettati in Iraq, e grazie all’appoggio dell’European External Action Service dell’Ue. I documenti e i report che abbiamo consegnato contengono indicazioni utili per il futuro”.

La delegazione europea si è mossa in team, Campomenosi racconta che lui e il collega spagnolo hanno avuto ovunque una buona accoglienza, sebbene abbiano trovata molta disillusione: “L’astensione è stato un tema relativo, in fondo: vero che è stata la più bassa del dopo Saddam, ma era anche attesa e in fin dei conti in alcune parti in Italia non siamo andati troppo meglio alle recenti amministrative. Il punto però è la sfiducia generale che c’è nella classe politica, nel sistema. Lo sconforto davanti alla corruzione endemica, i candidati minacciati, le minoranze rappresentante con riconoscimenti poco più che formali e rapite all’interno dei partiti dominanti”.

Chi non ha votato sono stati i cittadini secolarizzati come i giovani Tashrinis? “Sì, la mia impressione è che siano stati loro i primi a non aver creduto al voto, e che invece ai seggi si siano recati soltanto coloro che hanno appartenenze famigliari, tribali, locali. Per dire, la cosa impressionante per noi e del tutto normale per loro è la procedura di voto: una grande scheda contenente molte candidature che però, una volta marcata dall’elettore, non veniva piegata e dunque mentre la si spostava all’interno dei seggi il voto era visibile, non segreto. Per chi era presente è sembrata una normalità, perché in una determinata area il senso di appartenenza alle dinamiche di famiglie, clan e appartenenze varie era tale da rendere il voto una ‘cosa scontata’ per cui non è richiesta segretezza“.

Campomenosi racconta che nel suo hotel c’era un seggio “dedicato ai Vip, così ci hanno spiegato”: leader politici e membri del governo si erano recati a votare lì ed era “del tutto normale vedere capi di milizie considerate organizzazioni terroristiche che si intrattenevano in conferenze stampa con i giornalisti”. Le milizie sciite sono uno stato nello stato in Iraq, una sorta di mafia che smuove consensi, soldi, persone. Molte di queste hanno collegamenti diretti con i Pasdaran, che le usano come strumento di influenza geopolitica. Hanno combattuto l’Is durante la fase del Califfato e con questo si sono guadagnate il riconoscimento istituzionale: la formazione ombrello, che porta il nome politico di Forze di mobilitazione popolare, è ora parte del sistema di sicurezza del paese permettendo maggiore presa sul potere ai vari establishment miliziani.

I leader politici collegati gestiscono il sistema clientelare contro cui i Tashrinis hanno protestato. Con le ultime votazioni hanno subito un arretramento in termini di consensi formali e per questo sono già in corso fasi di delegittimazione – intanto retorica – dei risultati: “In questo contesto – aggiunge Campomenosi – il rischio che le prossime settimane, durante la formazione del governo, possano succedere incidenti è alto”.

La situazione in Iraq è particolarmente importante per l’Italia, che tra qualche mese si troverà a guidare proprio quella missione Nato. E con il Paese che potrebbe diventare il prossimo Afghanistan, per effetto di un ritiro che le forze americane stanno pensando da tempo, sarà la missione alleata a dover garantire una cornice di presenza e dunque la sicurezza generale. Ma l’Italia è in Iraq anche con altri tipi di attività, di carattere economico e commerciale, o per esempio sta aiutando il paese nel campo della tutela del patrimonio culturale – che con l’Is è andato in parte distrutto e oggetto di traffici illeciti. È l’Art Squad dei Carabinieri che si occupa, sotto il comando del colonnello Silvio Mele, comandante del nucleo TPC di Torino, di passare expertise sul traffico di opere d’arte agli iracheni e ha monitorato alcune attività di ristrutturazione. 

“Sottolineo – chiude l’europarlamentare leghista – che il lavoro che abbiamo svolto noi europei è stato in perfetta sintonia. C’erano membri del Ppe, dei Socialisti, dei Verdi, ma nonostante le differenze politiche siamo stati sempre allineanti nel condividere i valori universali che ci contraddistinguono. Questo ci ha permesso di applicare il giusto metro di valutazione nel contesto iracheno e di essere efficaci nelle nostre valutazioni”.

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