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Digital tax addio. E scoppia la pace sui dazi americani, anche per l’Italia

Dopo l’intesa sulla minimum tax raggiunta all’Ocse, Austria, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna hanno siglato un compromesso con gli Stati Uniti su un periodo transitorio per le multinazionali, a cui sarà applicata la global tax dal 2023

Giusto qualche giorno dopo l’intesa storica tra i Paesi Ocse su una minimum tax al 15% da imporre alle multinazionali, un altro importante passo avvicina l’America all’Europa. La digital tax, che pendeva sulle big tech statunitensi, è stata infatti eliminata da parte di cinque Stati europei ponendo fine a una disputa in corso da anni. Austria, Francia, Regno Unito, Spagna e Italia hanno così deciso di ritirare i loro progetti e concedere alle grandi aziende un periodo transitorio fino al 2023 – quando entrerà in vigore la nuova regolamentazione Ocse – durante cui le tasse sui servizi digitali saranno comunque prelevate ma con importanti riserve. Washington, da parte sua, si impegnerà a ritirare i dazi del 25% imposti su alcuni determinati beni come ritorsione.

Viene così accontentata la volontà dell’amministrazione Biden, che si augurava un finale di stagione simile non appena fosse stato raggiunto l’accordo con l’OCSE sulla tassazione minima. Come riporta il Financial Times, durante questo periodo ponte alle aziende che nel 2022 pagheranno più tasse, come se la nuova normativa della minimum tax fosse già entrata in vigore, verranno garantiti crediti futuri contro l’imposta per l’eccesso.

“Abbiamo raggiunto il nostro accordo sulle Digital Services Taxes (DST) in concomitanza con lo storico accordo globale dell’Ocse”; ha affermato entusiasta Khaterine Tai. Per la rappresentante commerciale degli Stati Uniti, quella ottenuta da 136 Paesi (che rappresentano il 94% del PIL mondiale) è una conquista che “aiuterà a porre fine alla corsa al ribasso sulla tassazione delle società multinazionali, livellando il campo di applicazione dell’imposta sull’azienda. In coordinamento con il Tesoro, lavoreremo insieme a questi governi per garantire l’attuazione dell’accordo”, ha concluso.

La soluzione raggiunta assomiglia tanto a una boccata d’ossigeno. Non a caso, la questione digitale sembrava allontanare l’Europa dall’alleato americano. Il Digital Markets Act e la strategia univoca dell’eurodeputato tedesco Andreas Schwab, infatti, erano risultate amare al palato dei funzionari statunitensi, dichiaratamente contrari a una misura che andava a discapito solo delle aziende americane.

La natura della nuova intesa, però, permette di auspicare un dialogo costruttivo e collaborativo tra i due continenti. Già lo scorso giugno la Commissione europea aveva “accolto con favore la decisione” di Washington nel “sospendere l’applicazione delle tariffe fino a 180 giorni” sulla digital tax nei riguardi di Vienna, Madrid e Roma. “I negoziati multilaterali” che si stavano tenendo all’Ocse, spiegavano da Bruxelles, rappresentavano “il luogo giusto per una soluzione globale all’equa tassazione del settore digitale”.

Non a caso l’auspicio degli Stati Uniti, contrari a qualsiasi attuazione di imposte unilaterali, è che il patto possa stimolare altri Paesi a firmare un accordo simile. Il riferimento è chiaramente rivolto a Turchia e India, con cui la questione è tutt’altro che risolta.

“Nel complesso”, spiegano in una nota dal Ministero dell’Economia e Finanza, “questo accordo politico bilancia attentamente le prospettive dei diversi Paesi ed è un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno a lavorare insieme per raggiungere un consenso e per realizzare riforme multilaterali di vasta portata che aiutino a sostenere le nostre economie nazionali e le finanze pubbliche”. La comunicazione è stata lanciata da via XX Settembre in concomitanza con gli altri cinque Ministeri delle Finanze europei e dal Tesoro americano.

Quello britannico, ad esempio, ha tenuto a sottolineare come tutto ciò “significa che la nostra tassa sui servizi digitali è salvaguardata fino al 2023 e le entrate che garantisce potranno continuare a finanziare servizi pubblici indispensabili”. Una precisazione che assomiglia molto più a una punzecchiatura da parte di Londra, probabilmente non così convinta anche se a parole si era sempre dichiarata disponibile a giungere ad una pax digitale.

Quel che è certo, dunque, è che fra poco meno di due anni cambieranno molte regole nel mondo tech. L’intesa Ocse – a cui si sono sottratti solamente Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka – pone d’altronde le sue fondamenta su due pilastri fondamentali. Il primo riguarda la percentuale da tassare, che non potrà essere inferiore al 15%, in modo tale da soddisfare chi chiedeva imposte anche più alte. Il secondo, invece, riguarda quali profitti debbano essere toccati: almeno una parte di questi dovrà essere tassata nello Stato in cui la multinazionale opera effettivamente, gli stessi su cui le aziende potranno maturare un credito d’imposta.

Tutto è bene quel che finisce bene, dunque. O quasi. Sì, perché il pericolo più grande dell’Ocse si chiama Congresso. L’ostruzionismo che questo potrebbe apporre rischierebbe di far saltare il banco. Se la legge non venisse recepita, infatti, ad aprirsi potrebbero essere proprio quegli scenari che l’OCSE si augurava di aver messo alle spalle – guerre commerciali e nuove tassazioni in uno spirito tutt’altro che collaborazionista.

Un problema, quello del Filibuster, come lo chiamano Oltreoceano, che il presidente Joe Biden ha preso a cuore per un interesse innanzitutto nazionale. Per aggirare l’opposizione repubblicana al Senato e permettere che le questioni relative al diritto di voto, all’aumento del debito federale e altre battaglie (come la regolamentazione migratoria, la riforma carceraria e quella più complessa sul cambiamento climatico) potessero passare, l’ex vice di Barack Obama si è detto pronto a modifiche sostanziali. Una priorità interna ma anche internazionale, in vista del G20 romano del prossimo fine settimana in cui i leader mondiali sono chiamati a ratificare l’intesa digitale più importante.


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