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Perché Mps per lo Stato è un cattivo affare

Le uniche banche straniere che potrebbero rilevare il Monte dei Paschi sono francesi e difficilmente il governo Draghi lo permetterà. La permanenza dello Stato a Siena rischia di costare troppo, anche alla collettività. Per questo una riapertura delle trattative è la strada maestra per salvare la banca più antica del mondo

C’è più di una ragione per cui il Monte dei Paschi di Siena dovrebbe finire tra le braccia di Unicredit. La banca milanese, nonostante la rottura delle trattative con l’azionista Tesoro, rimane il candidato naturale alle nozze con la banca più antica del mondo. E questo mentre a via XX Settembre il ministro Daniele Franco studia come convincere la commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager a concedere non meno di 18 mesi di tempo per rimettere in sesto Mps e trovare un nuovo compratore, sempre che non sia la stessa banca guidata da Andrea Orcel (che l’8 novembre verrà ascoltato in commissione Banche insieme al ceo del Monte, Guido Bastianini).

Ambienti vicini al dossier consultati da Formiche.net fanno ben intendere che l’istituto di piazza Gae Aulenti è l’unico in Italia ad avere le carte in regola per un’operazione di questo calibro. Tanto per cominciare, viene sottolineato, va esclusa qualunque operazione con banche estere. Al momento gli unici istituti in Ue in condizioni di sostenere un simile sforzo sarebbero francesi: Bnp-Paribas e Crédit Agricole. Ma difficilmente, anzi è quasi impossibile, che il governo italiano, soprattutto con Lega e Movimento Cinque Stelle parte della compagine, avalli una simile operazione.

Poi c’è il fronte interno. Unicredit avrebbe abbandonato il confronto al ministero dell’Economia perché le condizioni di acquisto non erano giudicate abbastanza vantaggiose per la banca, mentre per il Tesoro i vincoli di Orcel (aumento di capitale da 6,5 miliardi in testa) erano decisamente insostenibili. Di qui un’altra considerazione. Una qualsiasi altra banca italiana, ammesso che esista, disposta a rilevare la parte sana di Mps (quella cioè sgravata di Npl e costi legali) per convincere l’azionista pubblico dovrebbe necessariamente alzare la posta e non certo pretendere dalla controparte un impegno quale quello chiesto da Unicredit. A quel punto come potrebbe il manager di turno giustificare agli azionisti della banca il fatto di aver messo sì le mani su Mps ma a un prezzo più alto rispetto all’asticella fissata da Unicredit?

Non è finita. C’è un’altra ragione che porta a protendere per una ripresa delle trattative con Unicredit. La permanenza dello Stato azionista per ancora molti mesi (fonti Reuters parlano di una richiesta formale da parte italiana per 18-24 mesi di proroga) avrebbe il suo costo. Tanto per cominciare, la ricapitalizzazione da 3 miliardi, che però è verosimile ritoccare al rialzo. L’aumento, nei desiderata del Mef, sarebbe market friendly, ovvero interamente sostenuto dal mercato.

Ma c’è sempre il rischio che serva un contributo pubblico, con l’impiego dei soldi dei contribuenti, se non altro per evitare lo spauracchio del burden sharing, terrore di ogni risparmiatore dopo il precedente delle quattro banche popolari liquidate nel 2015. E poi, sempre a carico del Tesoro, ci sarebbe la gestione dei costi legali (6,1 miliardi), degli esuberi (su cui il risvolto politico è garantito) e delle sofferenze, da scaricare presso Amco, società al 100% del Mef. Tutti costi a carico dello Stato italiano, che dovrebbero incentivare a una riapertura delle trattative.

Intanto, anche a Londra si sono fatti una loro idea della vicenda. “L’amministratore delegato di Unicredit Andrea Orcel è diventato da negoziatore a elemento di rottura nella trattativa con il governo sull’acquisto del Monte dei Paschi”, ha scritto il Financial Times, ricordando che Unicredit ha interrotto i negoziati dopo il rifiuto da parte del ministero dell’Economia di provvedere a un aumento di capitale di Mps per 6,5 miliardi di euro.

A ogni modo “Orcel ha il merito di aver portato avanti un’importante trattativa. Inoltre, la ricapitalizzazione di Mps, sebbene eccessiva, sarebbe servita a riparare i crediti in sofferenza della banca”. E comunque, è lo stesso quotidiano britannico a credere in un ritorno di Unicredit, i cui “investitori starebbero dando a Orcel una seconda possibilità, dal momento che l’azienda è nella sua forma migliore da anni.”



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