Gli istituti tedeschi sono reduci da stagioni buie, fatte di perdite, nozze sfumate e bilanci imbottiti di derivati. Per questo temono che un ritorno dell’inflazione galoppante possa polverizzare gli sforzi e con essi la ripresa dell’economia. La prova è nel fuoco del ceo di Deutsche Bank, Sewing, aperto contro Christine Lagarde e la sua politica monetaria
Ritornano i falchi tedeschi, quelli vecchia maniera. E Christine Lagarde, presidente della Bce, potrebbe avere un problema. Era l’8 settembre scorso quando il governatore della Bundesbank, la banca centrale tedesca, Jens Weidmann (che a fine anno lascerà dopo 10 anni la guida della Buba) chiese a Francoforte di cominciare a tirare il freno a mano nella politica monetaria ultra-accomodante, vista come una fucina dell’inflazione. Stimoli all’economia, giova ricordarlo, che poggiano essenzialmente su un programma di acquisto titoli da 1.850 miliardi e da tassi inchiodati allo zero o di poco sotto. Un messaggio, per nulla subliminale, che aveva solo di poco anticipato la frattura tra il sistema del credito tedesco e l’Eurotower.
AFFONDO TEDESCO
Stavolta è sceso in campo un altro peso massimo, l’amministratore delegato di Deutsche Bank, Chirstian Sewing. L’uomo a capo della prima banca tedesca, riacciuffata per i capelli tre anni fa e salvata da crack sicuro, dopo anni di bilanci in profondo rosso e imbottiti di derivati e prodotti tossici. Ma soprattutto a capo della potente Association of German Banks (Agb), il sindacato delle banche teutoniche, la nostra Abi.
Il manager ha scoperto le carte, attaccando frontalmente Lagarde e la sua politica monetaria. “La presunta panacea degli anni passati – bassi tassi di interesse con prezzi apparentemente stabili – ha perso il suo effetto, ora stiamo lottando con gli effetti collaterali. La politica monetaria deve contrastare questo, e il prima possibile”, ha detto. Secondo il banchiere “le conseguenze di questa politica monetaria ultra-allentata diventeranno sempre più difficili da correggere quanto più a lungo le banche centrali non invertiranno la rotta”.
E per questo Lagarde dovrebbe agire subito, “meglio prima che poi”. Il senso è chiaro, con l’inflazione c’è poco da scherzare e continuare a tenere il costo del denaro troppo basso e a imbottire gli istituti di liquidità rischia di esporre i medesimi a uno tsunami di prestiti, le cui possibilità sono tutte la verificare. Specialmente se, un surriscaldamento dei prezzi, dovesse bruciare i primi rimbalzi delle economie continentali post-pandemici. C’è però un problema: l’ex direttore del Fmi, oggi alla guida della Bce, non ne vuol sentir parlare di tirare i remi in barca anzitempo.
LA FED E’ LONTANA
Lagarde, insomma, non farà come Jerome Powell, governatore uscente della Fed, ansioso di avviare una volta per tutti il tapering (il disimpegno dagli stimoli e il ritorno dei tassi a livello di mercato). La politica della Bce non cambierà radicalmente nei prossimi mesi, come dimostra la decisione sul prolungamento del Pepp, in scadenza a marzo 2022, che verrà presa solo a dicembre. E comunque, anche se dovesse uscire di scena, gli acquisti di titoli di Stato continueranno sotto altre forme. Soprattutto: i tassi non scenderanno prima del 2023 né è detto che lo faranno dopo. Tutto questo perché “nel complesso, continuiamo a prevedere che l’inflazione a medio termine rimanga al di sotto del nostro nuovo obiettivo simmetrico del 2%”. Tradotto, l’inflazione è un problema ma non così grosso. Non per ora almeno.
IL PASSATO (E IL PRESENTE) DELLE BANCHE TEDESCHE
Forse, la lettura più corretta della sfuriata tedesca sta nella paura delle stesse banche tedesche di perdere i benefici del risanamento messo in atto dopo anni bui. A cominciare dalla stessa Deutsche Bank, che fino al 2014 vantava derivati in pancia, secondo alcune stime, pari a 54 mila miliardi. Non può stupire che nel 2019, all’indomani del clamoroso fallimento delle nozze con la seconda banca di Germania, Commerzbank (partecipata al 15% dal governo federale), l’istituto di credito tedesco abbia messo a bilancio perdite per 5,3 miliardi di euro per poi rivedere la luce nel 2020 con 113 milioni di utile.
Dunque, tutto finito? Pare, sempre che non ci si metta la Bce e l’inflazione. Nel terzo trimestre, Deutsche Bank ha messo a segno un utile netto attribuibile agli azionisti di 194 milioni di euro nel terzo trimestre del 2021, in crescita del 6,6% rispetto ai 182 milioni di un anno prima e superiore ai 135 milioni di euro stimati dagli analisti. Si tratta del quinto trimestre consecutivo di guadagni, la più lunga serie in positivo dal 2012. Nello stesso periodo i ricavi sono stati pari a 6,04 miliardi di euro, in aumento rispetto ai 5,94 miliardi di euro dello stesso periodo del 2020. L’utile ante imposte è stato di 554 milioni di euro (+15% sul terzo trimestre 2020).
E Commerzbank? Buone notizie, anche qui, dopo un 2020 da brivido, ovvero una perdita di almeno 2,9 miliardi di euro, a fronte dell’utile di 585 milioni di euro generato nello stesso periodo dello scorso anno. E oneri di ristrutturazione per 800 milioni di euro e svalutazioni all’avviamento per 1,5 miliardi di euro, chiudendo oltre 400 filiali. Nell’ultimo trimestre del 2021, il gruppo bancario tedesco ha registrato un utile netto di 403 milioni di euro, che si confronta con una perdita di 60 milioni del terzo trimestre 2020 e una attesa del mercato di 245 milioni di euro. L’utile operativo ammonta a 472 milioni di euro, in crescita dai 168 milioni di un anno fa. I ricavi sono stati pari a 2,006 miliardi di euro, abbastanza in linea con lo scorso anno, quando sono stati pari a 2,033 miliardi di euro. La paura tedesca che l’inflazione si mangi la ripresa è ora spiegata.