A margine della Cop26 di Glasgow, Washington e Pechino raggiungono un’intesa per lavorare assieme sui cambiamenti climatici che getta le basi per un (auspicabile) gioco al rialzo. La prossima settimana è in agenda l’incontro virtuale Biden-Xi. La tregua reggerà?
Almeno per ora è la notizia più importante della Cop26 di Glasgow: Stati Uniti e Cina hanno pubblicato una dichiarazione congiunta in cui “riconoscono la gravità e l’urgenza della crisi climatica” e promettono di lavorare insieme per affrontare la questione. Entrambe le parti “terranno a mente il loro fermo impegno a lavorare insieme” per raggiungere l’obiettivo di 1,5° stabilito nell’accordo di Parigi e si impegnano a cooperare sugli standard normativi, la transizione verso l’energia pulita, la decarbonizzazione, la progettazione verde e l’utilizzo delle risorse rinnovabili. Inoltre, si impegnano a contrastare le emissioni di metano. Washington e Pechino hanno annunciato anche la volontà di formare un gruppo di lavoro che si riunirà regolarmente per discutere le soluzioni climatiche.
La ripresa del dialogo
Per John Kerry, inviato del presidente statunitense Joe Biden per il clima, è un “nuovo passo”: la dichiarazione “rende imperativo cooperare”, ha spiegato sottolineando – e ricordando a Pechino – l’impegno a creare “un piano d’azione nazionale completo e ambizioso sul metano”. Secondo Xie Zhenhua, omologo cinese di Kerry, “in qualità di superpotenze, Cina e Stati Uniti hanno responsabilità e obblighi internazionali”. Devono “pensare in grande”, ha detto l’inviato del presidente Xi Jinping. L’accordo, che ha colto di sorpresa gli intervenuti al summit sul clima nella città scozzese, è stato salutato favorevolmente da Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, che ha definito l’iniziativa “un passo importante nella giusta direzione”.
Il dialogo tra Washington e Pechino sembra ripartito dopo le difficoltà di inizio anno sui binari individuati mesi fa da Kerry. L’inviato statunitense poco dopo il suo insediamento alla Casa Bianca aveva spiegato che Stati Uniti e Cina devono affrontare quella del cambiamento climatico come una questione “critica” ma “a sé stante”. Ossia: diritti umani e le pratiche commerciali sleali di Pechino “non saranno mai moneta di scambio” per la cooperazione climatica.
Sembra ripartito per merito anche soprattutto della telefonata di settembre tra Biden e Xi pensata dalle diplomazie per trovare una soluzione alle incomprensioni sbloccando l’impasse grazie al rapporto tra i due leader, che si conoscono bene e da diverso tempo, da quando entrambi erano vicepresidenti a cavallo tra il decennio scorso e quello precedente. In agenda per lunedì 15 novembre, come rivelato da Politico, c’è un incontro virtuale, il primo da quando Biden è entrato alla Casa Bianca, che potrebbe aiutare il dialogo anche a livello diplomatico.
Ma guai a farsi illusioni. E non soltanto perché, nelle stesse ore dell’intesa a Glasgow, a Washington John Kirby, portavoce del Pentagono, spiegava in conferenza stampa che i cambiamenti climatici e la Cina rappresentano minacce “equamente importanti” alla sicurezza degli Stati Uniti. Intervistato da Formiche.net, Philippe Le Corre, senior research fellow alla Kennedy School dell’Università di Harvard, ha avvisato: l’incontro della prossima settimana tra i due leader sarà privo di contenuti e principalmente simbolico. “La scena interna negli Stati Uniti rimane molto anti-cinese. In soli tre o quattro anni, la Cina è diventata il nemico numero uno (prima, erano solo il Pentagono e la Cia a dirlo)”.
Diplomazia climatica: all’atto pratico
Se si mettono la rinnovata spinta al dialogo verde e le parole di Xie in controluce non si può non notare la pressione, implicita e non, degli altri Paesi alla Cop26. Basata su un fatto ineludibile: Cina e Usa sono i più grandi emettitori del mondo (rispettivamente responsabili per il 28 e 15 per cento del rilascio di gas climalteranti) e se non dimostrano di voler mettere olio di gomito nella transizione – anche a costo di uno scomodo compromesso – si tumula ogni speranza di poter raggiungere gli obiettivi climatici.
Effettivamente, l’impegno delineato dai due Paesi nella dichiarazione congiunta impone sacrifici a entrambi. Da una parte i cinesi si sono impegnati a ridurre le emissioni di metano, sforzo cruciale per contenere il riscaldamento terrestre: il gas riscalda 80 volte più della CO2 (anche se resiste molto meno in atmosfera) e abbatterne la dispersione avrebbe effetti dirompenti sul breve termine. Finora non c’era traccia di un piano per il metano nei programmi climatici della Cina, di gran lunga maggiore emettitrice di metano, dunque la “spintarella” Usa potrebbe aver fatto la differenza.
La dichiarazione congiunta blocca Usa e Cina in una sorta di stallo alla messicana diplomatico. Washington vuole che Pechino alzi il livello di ambizione climatica, mentre Pechino vuole che Washington rispetti i propri impegni, tra cui spiccano le promesse di finanziamento ai Paesi emergenti. Per metterla come l’ha messa Xie, in Cina si diffida della “cultura” degli Usa (intendendo la democrazia in senso lato, ossia la possibilità che il prossimo leader non rispetti gli impegni presi da Biden). “La Cina è diversa”, ha detto, “Quando ci prendiamo impegni, agiamo concretamente e onoriamo il nostro impegno al cento per cento”.
Apologia dell’autoritarismo a parte, la maggiore esposizione cinese permette agli Usa, viceversa, di tenerli più sotto scacco e aumentare la pressione. L’obiettivo è spingere Pechino ad alzare l’asticella dei propri contributi alla decarbonizzazione, per esempio iniziando a ridurre le emissioni di CO2 già da questo decennio e non dal 2030. Sullo sfondo i negoziati per il documento finale di Cop26, che dovrebbe uscire a giorni, dove gli americani stanno pungolando i cinesi ancora parecchio restii a impegnarsi di più. Kerry l’ha girata in positivo, asserendo che nella cornice della nuova collaborazione “diventerà evidente che [la decarbonizzazione cinese] si potrebbe fare molto prima”.
Riassumendo brutalmente, da una parte dovranno impegnarsi di più sulle emissioni (anche a scapito della crescita) e dall’altra dovranno tirare fuori più soldi. La posta in gioco non è solo la reputazione, o la posizione di leadership globale: in futuro le misure per evitare il dumping climatico (come la Cbam europea o un’equivalente diplomatico) potrebbero mettere i Paesi meno ambiziosi sul clima in una posizione di svantaggio rispetto a chi davvero si è impegnato a decarbonizzare e far decarbonizzare, sul piano economico e su quello diplomatico/politico. A lungo andare questo gioco al rialzo conviene a chi rimane al tavolo (e al clima). Ma basterà sul breve periodo – e impatterà il documento finale della Cop?