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La ritorsione cinese che spaventa le tech americane

Il disegno di legge americano mira a colpire l’aggressività cinese e rendere più autonomi gli Usa con investimenti da 250 miliardi di dollari. Ma da Pechino sono certi: “Danneggerà gravemente gli interessi americani”. Le società tech in allarme per possibili ritorsioni

Il clima tra Stati Uniti è Cina è tutto fuorché sereno. L’ultima diatriba riguarda l’Innovation and Competition Act (Usica), un pacchetto da 250 miliardi di dollari pronti per essere investiti nelle nuove tecnologie. Un passo che, da parte americana, risulta necessario e di primaria importanza per livellare il divario che separa i due Paesi in ambito tech. Per di più, si tratta di un’esigenza che viene richiesta a gran voce da entrambe le fazioni politiche. La proposta di legge è infatti stata avanzata dai senatori Chuck Schumer, democratico dello Stato di New York, e Todd Young, repubblicano dell’Indiana, ha ricevuto il via libera da parte del Senato e si spera di farla sottoscrivere al presidente Joe Biden “il prima possibile”, come ha affermato Nancy Pelosi, la speaker della Camera dove è atteso il disegno di legge. Tuttavia, a iter legislativo non ancora concluso, da Pechino è già arrivato l’avvertimento di una nuova rappresaglia qualora l’Usica dovesse diventare legge.

A inizio giugno, la Cina lo aveva fortemente criticato per la sua “mentalità da Guerra Fredda” perché pieno di “pregiudizi ideologici”. Il disegno di legge conta 2.276 pagine ed è strutturato in tre progetti che seguono un unico filone: l’Endless Frontier Act, lo Strategic Competition Act e il Meeting the China Challange Act che hanno l’obiettivo di garantire agli Usa un vantaggio tecnologico sulla Cina e di migliorare la competitività statunitense sul mercato. Per riuscirci, gli investimenti interesseranno non soltanto la ricerca sulla IA e la produzione di strumenti tech made in Usa, ma anche la creazione di dieci hub regionali in grado di generare nuovi posti di lavoro e di stilare un programma per far fronte alla crisi di approvvigionamento, in modo tale da non subirne le conseguenze. Il tema più urgente riguarda la capacità di produrre semiconduttori sul proprio territorio in modo autonomo.

A spaventare Pechino, però, è proprio il tentativo degli Usa di raggiungere l’indipendenza sul piano tecnologico. Nell’Usica sono comprese delle misure specifiche che affrontano le minacce cinesi per l’economia statunitense. Tra queste, le più importanti riguardano il furto della proprietà intellettuale da parte dello Stato e gli attacchi informatici alle aziende, senza dimenticare il divieto per le agenzie governative di acquistare droni fabbricati in Cina e quello di scaricare e utilizzare TikTok (come nel caso dell’esercito, che sembra fare orecchie da mercante). Per questo, l’ambasciata cinese a Washington ha iniziato la pressione sulle aziende americane affinché influenzassero i membri del Congresso a cambiare idea.

Gli imprenditori, loro malgrado, si trovano nel bel mezzo di uno stallo messicano. Da una parte sono obbligati a rispettare le leggi federali, dall’altra temono forti ritorsioni da parte di Pechino. L’aggressività cinese, tra l’altro, sembrerebbe già farsi sentire. Se l’Usica non dovesse essere ritirato, la rappresaglia “sarà calibrata” ha assicurato un portavoce di un’associazione internazionali di affari incentrati sulla Cina e con sede a Washington. “La Cina sta diventando molto più aggressiva. Andranno fino in fondo per vincere”, gli ha fatto eco un rappresentante commerciale che lavora con aziende cinesi e americane, rimasto anonimo per paura di ritorsioni.

A mettere ulteriore pepe nel piatto ci hanno pensato le parole di Alex Karp, ceo di Palantir Techonologies, azienda statunitense specializzata nell’analisi dei big data che lavora a stretto contatto con il governo federale. Intervenuto una settimana fa nel programma televisivo Squawk Box della CNBC, Karp ha sostenuto come per lui le aziende che lavorano in Cina o in Paesi simili dovrebbero giustificarne il motivo. Una questione morale e in rispetto degli interessi nazionali, alla quale ha risposto prontamente il Ceo di Apple, Tim Cook. “Come azienda, penso che abbiamo la responsabilità di portare avanti affari in quanti più posti possibili”, ha detto citando il principio di Tom Watson (“La pace del mondo attraverso il commercio mondiale”) in cui “ho sempre creduto”.

I colloqui portati avanti da lungo tempo dalla rappresentante commerciale Khaterine Tai e dal suo omologo cinese, il vice premier Liu He, dovrebbero scongiurare una nuova guerra commerciale a suon di dazi. Almeno sotto questo punto di vista, la distensione tra Stati Uniti e Cina sembra non dover compiere passi indietro. La questione dell’Usica, piuttosto, apre un ulteriore scenario, non meno sgradevole e pericoloso. La rabbia cinese potrebbe sfogarsi andando a colpire i nervi scoperti degli Stati Uniti. Un esempio pratico riguarda le esportazioni essenziali, come nel settore automobilistico, da cui Washington dipende fortemente da Pechino. Neanche a dirlo, uno stop delle esportazioni provocherebbe un terremoto.

“La Cina possiede molti modi per danneggiare gli Stati Uniti”, ha spiegato Mary Lovel, senior fellow al Peterson Institute for International Economics, “ma ridurre il flusso di input strategici per i veicoli elettrici sarebbe una possibile ritorsione”. Nella terra del Dragone, l’Usica viene denominato anche “sindrome di Tonya Harding”, in quanto colpirebbe le ginocchia del gigante asiatico mettendola fuori gioco.

Durante l’estate appena trascorsa, poi, l’ambasciatore negli Usa Qin Gang aveva avvertito come i contenuti del disegno di legge avrebbero “dirottato le relazioni Usa-Cina e danneggiato gravemente gli interessi americani”. “Nessuno ostacolerà l’America nel rafforzare la nostra capacità di innovazione e la produzione interna in modo da poter lanciare una nuova era di leadership”, ha controbattuto deciso il senatore Schumer.

Insomma, mentre per la Cina si tratterebbe di un boomerang e per l’America di una questione non più rinviabile, il braccio di ferro tra i due Paesi continua e incancrenisce ancor di più i rapporti. Per di più, il disegno di legge non riesce a mettere d’accordo neanche all’interno degli Stati Uniti. O meglio, mentre la politica è decisa ad andare avanti, per alcuni bisognerebbe semplicemente addrizzare il tiro. Nonostante sia prevista una ingente somma di denaro da destinare alla ricerca e alle tecnologie emergenti, i 250 miliardi di dollari non sono altro che “una goccia nel mare rispetto ai trilioni che Pechino continua a riversare nel proprio sviluppo tecnologico”, scrivono dal Center for Strategic & International Studies. Quello che sostengono dal think thank di Washington è che “gli Stati Uniti non possono e non devono tentare di competere con la Cina in una corsa di investimenti sostenuti dallo Stato”. In sostanza, il Congresso dovrebbe indirizzare meglio i soldi da investire, magari per una serie di miglioramenti nel controspionaggio – quello cinese è aumentato del 1.300% negli ultimi dieci anni secondo i dati dell’Fbi, un danno che agli Usa costa tra i 300 e i 600 miliardi di dollari all’anno – o nella sicurezza “per proteggere l’innovazione statunitense e rafforzare la competitività nazionale”. L’Usica, concludono, “non va abbastanza lontano per garantire che questi sforzi siano attuati con attenzione e adeguatamente finanziati”.

Entrambi le parti, però, sembrerebbero certe delle loro posizioni. Una testimonianza in più di come sia Stati Uniti che Cina ritengono di fondamentale importanza superare il proprio rivale in ambito tech e per cui non intendono mollare neanche un centimetro.

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