Ultima chiamata per il Vecchio continente. Vent’anni fa produceva un quarto dei semiconduttori al mondo, oggi soltanto il 9%. Ha le carte in regola per tornare in corsa ma servono due passi: collaborare con Intel, Samsung e Tsmc e rafforzare l’ecosistema. Cioè investire
“Il 2030 è appena dietro l’angolo, è il momento per l’Europa di decidere il suo destino nei semiconduttori”. Ma serve mettere mano al portafogli.
L’ha più volte sottolineato anche il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, in particolare a proposito della possibilità che il colosso americano Intel apra uno stabilimento di produzione in Italia – dossier su cui è alta l’attenzione anche da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi.
Lo evidenzia anche un recente rapporto della società di consulenza strategica Kearney dal titolo “Europe’s urgent need to invest in a leading-edge semiconductor ecosystem”.
Nel 2000 era prodotto in Europa quasi il 25% dei semiconduttori. Oggi quella quota è crollata all’8% secondo Kearney (al 9% secondo altre stime come quelle citate da Intel). “Trent’anni fa l’Europa produceva il 44% dei semiconduttori mondiali. Oggi il 9%”. Pensate, dal 44 al 9%”, ha sottolineato Pat Gelsinger, amministratore delegato di Intel, intervistato dall’emittente pubblica irlandese RTÉ. Ancor più preoccupante è lo scenario relativo alla tecnologia dei semiconduttori all’avanguardia: in questo settore la quota di mercato è scesa dal 19% nel 2000 allo zero attuale, sottolinea il rapporto.
Che cos’è successo? Negli ultimi 20 anni, “le aziende europee hanno esternalizzato la produzione in Asia”, spiega il documento. Inoltre, “alimentate da condizioni interne favorevoli e spesso sostenute da sussidi locali, le aziende manifatturiere cinesi sono diventate innovatrici nel settore” e hanno “dominato l’assorbimento della domanda”.
Proprio i massicci incentivi in altre regioni mettono l’Europa in posizione di svantaggio (come dimostra il grafico sotto). “Gli incentivi governativi continuano a giocare un ruolo decisivo nell’attrarre e mantenere la capacità di produzione di semiconduttori in una regione”, si legge. Tra le soluzioni ci sono incentivi governativi tipici che includono contributi per ridurre significativamente i costi per l’acquisto, la realizzazione e il funzionamento di uno stabilimento durante il suo intero ciclo di vita.
Ora l’Unione europea vuole riscattarsi e si è data l’obiettivo di produrre entro il 2030 un quinto dei chip nel mercato globale. Si tratta di una mossa coerente con gli sforzi per rafforzare la propria autonomia strategica sulla scia degli effetti della pandemia Covid-19 che ha rafforzato la domanda di semiconduttori, cresciuta dal 5-6% al 20%, fino a una carenza globale che ha creato difficoltà a molti settori, tra cui quello dell’automobile.
Durante il suo discorso sullo Stato dell’Unione a settembre, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato uno European Chips Act. Il dossier è sul tavolo del commissario europeo al Mercato interno, il francese Thierry Breton, che in un post su LinkedIn ha indicato tre elementi per la nuova legge europea: una strategia comune di ricerca sui semiconduttori; un piano collettivo per migliorare la capacità produttiva; un quadro per la cooperazione e il partenariato internazionale.
Come detto, la crisi che si è abbattuta sul settore ha messo a nudo le difficoltà dell’Europa che, si legge nel documento Kearney, con una capacità di produzione locale limitata, ora rischia la sua sovranità tecnologica e deve correggere la rotta per mantenere la competitività a lungo termine.
Secondo la società di consulenza serve combinare capacità avanzate di ingegneria (ricerca e design) e di produzione (attrezzature e fabbricazione). Integrazioni di questo tipo hanno fatto la storia dell’Europa, basti pensare all’industria automobilistica. L’ambiente politico (“stabile”), quello industriale e quello della ricerca mettono il Vecchio continente in ottima posizione per recuperare terreno.
Come riuscirci? Servono due sforzi paralleli, sostengono gli esperti nel rapporto. Primo: rafforzare l’ecosistema locale incentivando la progettazione di chip all’avanguardia, la capacità produttiva, comprese fabbriche e i siti avanzati di test e packaging, e la ricerca. Secondo: collaborare con le aziende leader del settore. Con l’americana Intel, la sudcoreana Samsung e la taiwanese Tsmc che si sono impegnate a investire più di 300 miliardi di euro entro il 2030, l’Europa ha davanti a sé una finestra di opportunità unica che permetterebbe di combinare i suoi punti di forza con le competenze dei partner al fine di ridurre i rischi e raggiungere l’obiettivo 2030.
E così si torna alla questione economica perché l’autonomia strategica non è un pasto gratis. “Le significative differenze di costo tra le principali regioni asiatiche e l’Europa sono in gran parte il risultato del sostegno che i governi asiatici forniscono”, ribadisce il rapporto nelle conclusioni. “È quindi fondamentale che i governi europei forniscano lo stesso sostegno, sia per il valore economico che restituirà, sia per l’innovazione a lungo termine e l’autonomia strategica della regione”.
Quanti soldi bisogna mettere sul piatto? Al Financial Times, qualche settimana fa Paul Boudre, amministratore delegato della francese Soitec, ha spiegato che se Bruxelles “sposta l’ago” della bilancia nella produzione di semiconduttori deve mettere sul piatto almeno 20 miliardi di euro in sussidi. Senza dimenticare la “riflessione sulla compatibilità tra sovranità tecnologica e aiuti di Stato” a cui hanno fatto riferimento Giorgetti e il ministro francese dell’Economia Bruno Le Maire durante il loro incontro a margine del summit dei leader del G20 di Roma a fine ottobre.