Intervista all’economista ed ex membro del consiglio di vigilanza della Bce: dieci banche italiane possono salvare Mps senza ripercorrere lo schema del Fondo interbancario, che con Carige non ha funzionato. Coinvolgere le banche francesi? Sarebbe un segno di debolezza
C’è sempre una carta da pescare nel mazzo, il problema è capire quale sia la migliore. Per il Monte dei Paschi, dopo la rottura non certo indolore delle trattative tra Unicredit e l’azionista Tesoro, si aprono diverse strade, alcune in salita e piene di curve, altre decisamente più percorribili. Ieri dalla bocca del dg del Mef, Alessandro Rivera, sono arrivate le prima indicazioni precise sul futuro di Siena: ricapitalizzazione a mezzo mercato (3 miliardi, almeno), pulizia dei bilanci e rimessa della banca sul mercato, previa concessione di una proroga sostanziosa dall’Europa.
Poi, occorrerà trovare la famosa soluzione industriale. E qui i nodi potrebbero venire al pettine. Lo Stato, come messo in chiaro dallo stesso Rivera, non può rimanere azionista del Monte. Allora potrebbe farsi avanti un altro soggetto, magari Banco Bpm, le cui spalle non sono tuttavia larghe come quelle di Unicredit. Ancora, si potrebbe coinvolgere una grande banca straniera, verosimilmente francese, come Bnp Paribas o l’Agricole. Difficile però pensare a un benestare del governo, soprattutto con Lega e Fratelli d’Italia parte della compagine. Vicolo cieco? No.
Ignazio Angeloni, economista alla Harvard Kennedy School, ex membro del Consiglio di Sorveglianza della Bce e gran conoscitore di Mario Draghi, nei giorni scorsi ha lanciato una sua proposta: un pool di banche italiane per rilevare la quota del Tesoro. Intervistato da Formiche.net, va oltre e spiega genesi e ratio di una soluzione dal sapore tutto sistemico.
Dopo la rottura tra Tesoro e Unicredit, il futuro di Mps appare quanto mai incerto. Lei ha proposto il coinvolgimento di alcune banche italiane che possano rilevare la quota di controllo del Mef. Perché dovrebbe funzionare?
Intendiamoci, neanche io considero quella proposta come l’ideale in senso assoluto, cioè se potessimo riscrivere la storia partendo da diversi anni fa. La vedo piuttosto come l’ultima chiamata per Mps, al punto in cui siamo arrivati, per evitare la prospettiva o di una soluzione peggiore, come la strategia stand alone o il coinvolgimento di una banca decisamente meno robusta, oppure della dissoluzione della banca con o senza il coinvolgimento dell’autorità di risoluzione Ue.
L’ultima ipotesi spaventa e non poco. La fine della banca più antica del mondo…
Quest’ultima ipotesi è quella che prevederebbe il manuale europeo per una banca che non riesce a reperire sul mercato capitale sufficiente. Non mi sembra però che il Sistema Italia, inteso come politica ma anche includendo una parte del settore finanziario, sia pronto a percorrere quest’ultima strada. Vedo piuttosto il rischio di quell’esito che gli americani chiamano calciare la lattina più avanti lungo la strada, ovvero, procrastinare ancora. Dopo quel che è successo nel 2017, procrastinare ancora è proibito.
Va bene, ma allora, come se ne esce?
Allora dico: con un’operazione collettiva, che non costerebbe troppo a nessuna delle banche coinvolte e che costerebbe al contribuente meno di quanto sarebbe costato il deal con Unicredit, possiamo chiudere la questione e mostrare anche ai partner europei che l’Italia è più coesa e decisa di quanto si creda. Questo penso sia nell’interesse a lungo termine di tutti. La condizione naturalmente è che partecipino tutte le banche principali. Nessuna, per esempio, dovrebbe chiamarsi fuori perché ha appena fatto una fusione, o perché ne sta progettando una. E che l’operazione sia davvero definitiva.
Questo significa che il nuovo Mps (un bell’ossimoro, per la banca più vecchia del mondo) dovrebbe avere numeri di bilancio eccellenti, essere parecchio più piccola e specializzata su prodotti e servizi importanti per il territorio di riferimento, e con un attivo interamente ripulito. Il che comporta una Asset Quality Review indipendente e rigorosa. Tutte cose che nel 2017 non sono state fatte.
Qualcuno ha tirato in ballo due grandi banche francesi. Ma il governo difficilmente darà il benestare. Lei che dice?
Sono assolutamente favorevole a un’ulteriore integrazione del settore bancario in Europa. Penso anzi che la legislazione europea dovrebbe essere modificata per favorire questo sviluppo. Nel caso specifico, però, mi sembra che questa prospettiva sia meno preferibile di un intervento italiano. Le banche francesi sono già presenti in modo significativo in Italia. Sarebbe bene inoltre che la soluzione non rischiasse di essere vista come un segnale di debolezza del nostro sistema, che deve ricorrere all’estero dopo vari tentativi non riusciti.
Torniamo alla sua proposta. Quando si pensa al soccorso di più banche verso un unico istituto (il caso Carige insegna), il pensiero ricorre subito al Fondo Interbancario. In cosa si differenzia la sua proposta da uno schema già visto in passato, quale quello del Fitd?
Mi ha preceduto solo di un attimo, avrei toccato questo punto proprio ora.
Poco male, allora. Prego.
La mia idea non coinvolgerebbe in nessun modo il Fitd. Per due ragioni. La prima è che il Fondo dovrebbe occuparsi della protezione dei piccolo depositanti, non di finanziare e gestire salvataggi bancari. Il punto di riferimento per un’istituzione di questo tipo deve essere quella che opera negli Stati Uniti, la Federal Deposit Insurance Corporation, o Fdic, come ha sostenuto anche il governatore Visco. La Fdic non ricapitalizza banche, le liquida quando falliscono rimborsando i depositi sotto una certa soglia. L’altra ragione è proprio il fatto che gli esempi passati non hanno dato buona prova.
Ho la sensazione che si riferisca al caso di Banca Carige…
Il caso che lei ricorda è uno di essi. Si tratta di una banca che dopo molti anni si trova ancora in condizioni precarie. Non credo sia colpa essenzialmente del Fondo, piuttosto si tratta di un compito per cui non hanno risorse e strumenti adeguati. Ho invece ipotizzato una joint venture, nella quale le banche di comune accordo affiderebbero a un team di manager il compito di presentare un progetto in tempi brevi che soddisfi determinati requisiti di sostenibilità. La natura collettiva dell’operazione sarebbe garanzia che la soluzione non rifletta l’interesse particolare di nessuno, sospetto che qualcuno aveva avanzato nel caso di Unicredit. E che non pesi in modo eccessivo su nessuno.
E il Tesoro, che ruolo dovrebbe avere nella partita?
Credo sia consigliabile è che il Tesoro non partecipi al negoziato, fissando semmai solo alcune condizioni generali in partenza.
Angeloni, secondo molti osservatori e anche secondo lo stesso ministro Franco, Unicredit si sarebbe sottratta al confronto perché il Tesoro non era disposto a sostenere un aumento di capitale molto sostanzioso. Secondo lei non c’era davvero più spazio di manovra?
Non ho informazioni su come si è svolta la trattativa, al di là di quello che si è potuto leggere sui giornali. Non sono pertanto in grado di rispondere a questa domanda.
La pandemia avrà come primo effetto quello di aumentare il tasso di incagli presso le banche italiane. Chi perde il lavoro o ridimensiona l’attività, difficilmente riesce a rimborsare un prestito. Dobbiamo aspettarci altre crisi bancarie dal sapore sistemico?
Le condizioni del sistema bancario sono una delle grandi incognite della fase post-pandemia, di cui non conosciamo ancora la risposta. L’effetto ci sarà, non c’è dubbio, anche se personalmente spero e credo che sarà inferiore a quello che la Bce, con giusta cautela, aveva stimato nei mesi centrali della crisi del Covid. I tassi di crescita elevati che l’economia italiana sta registrando in questo momento fanno ben sperare. Nel caso in cui, una volta sollevata la coperta dei provvedimenti anti-pandemia si dovesse scoprire che la crisi lascia strascichi insostenibili in certe banche, si potrà ancora intervenire con sostegni, ma in maniera più selettiva.
C’è da stare abbastanza tranquilli, insomma.
Quello che io pavento piuttosto è un’altra cosa: cioè, che passata la pandemia ritornino i persistenti problemi irrisolti del nostro sistema bancario, che, dobbiamo riconoscere oggi con una certa delusione, neanche l’unione bancaria è riuscita a risolvere appieno negli anni pre-Covid. Anche per questa ragione, metterci dietro le spalle il nodo Mps sarebbe un passo avanti importante.