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La Cina tiene nascosta la trappola del debito. Report Atlantic Council

Gran parte dei Paesi in via di sviluppo è ostaggio dei prestiti muscolari cinesi che quasi sempre si risolvono in veri e propri espropri di asset. Ma quello che preoccupa di più è la cortina di fumo che Pechino alza intorno a simili operazioni finanziarie

La Cina tiene in mano una parte di mondo, quella in fase di sviluppo, tecnicamente non ancora avanzata. Ne sa qualcosa l’Africa che, come raccontato a più riprese da Formiche.net, è letteralmente prigioniera di Pechino e dei suoi prestiti muscolari. Vere e proprie trappole pronte a scattare al primo cenno di insolvenza. Peccato che, come ben chiarisce un report dell’Atlantic Council, il globo ne sappia poco o nulla, dal momento che “i vasti debiti nei confronti della Cina, contratti dai Paesi in via di sviluppo, non scompariranno dalla circolazione semplicemente perché Pechino ha eretto una cortina di silenzio. E l’onere del rimborso sarà inevitabilmente sulle spalle di quei Paesi che meno possono permettersi di fare sacrifici”.

La Cina presta e poi a poco a poco stinge il cappio. E non c’è solo l’Africa nel mirino. “Anche le nazioni a reddito medio stanno cercando di rinegoziare i loro debiti. Il problema è che chi presta denaro, ovvero la Cina, sta puntando i piedi proprio con quei governi che invece implorano comprensione e chiedono sollievo”, spiega il report. Sottolineando come “le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti Donald Trump e Joe Biden hanno accusato la Cina di utilizzare i prestiti per spingere molti Paesi verso una trappola del debito, che dà a Pechino il potere su asset strategici e risorse naturali quando i governi non possono rimborsare”.

L’Atlantic Council ricorda come “i prestiti cinesi per i progetti infrastrutturali rientrino nell’ambito della Belt and Road Initiative del presidente Xi Jinping. E questo riflette il disagio di molti dei 144 Paesi che hanno firmato accordi per un prestito con la Cina e che stanno lottando per rimborsare i prestiti di Exim Bank, China Development Bank e altre istituzioni finanziarie che hanno contribuito a finanziare oltre 3 mila progetti”.

Ne sanno qualcosa Paesi come lo Zambia, il cui debito estero è per il 30% verso Pechino, il Congo, ma anche gli Stati asiatici del Laos e dello Sri Lanka. Vittime, inconsapevoli o no questo è da vedere, di un meccanismo pericoloso: si accetta il finanziamento, spesso sostanzioso e con tassi allettanti, si realizza l’opera e nel momento in cui il rimborso diventa complicato scatta la tagliola. Vengono cioè fuori una serie di clausole che impongono l’ingresso delle banche cinesi nel capitale. E le autorità locali possono fare ben poco dal momento che le medesime clausole prevedono la sostanziale impossibilità di comunicare tra le diverse parti. Insomma, un prestito tossico.

L’ultimo, clamoroso, caso, è quello dell’Uganda, Paese dell’Africa orientale da 45 milioni di abitanti. Un’economia ancora povera e priva di asset di rilievo. E proprio una di queste poche infrastrutture, l’unico aeroporto internazionale del Paese a Entebbe, è da poco finita in mani cinesi, per non aver rimborsato un prestito di 207 milioni di dollari concesso dalla Export-Import Bank of China sei anni fa. Ironia della sorte, se così si può dire, il denaro doveva servire proprio all’ammodernamento e all’ampliamento dello scalo.


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