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Chi va e chi viene. Il gioco del delisting tra Usa e Cina

La vigilanza sulla Borsa americana ha approvato il regolamento che consente di imporre il delisting forzoso alle aziende cinesi quotate a Wall Street che si rifiutano di aprire i libri contabili agli ispettori. Ma a Pechino non sembrano essere particolarmente sconvolti. Anzi…

Storie di ordinario delisting. Chi va e chi viene nelle principali piazze finanziarie del mondo. Tra Cina e Stati Uniti, succede spesso, in un gioco tra le parti che assomiglia molto al ruba bandiera. Da una parte Washington, sempre più mal disposta verso quelle società cinesi quotate a Wall Street ree di minacciare la sicurezza tecnologica e industriale americana. Dall’altra Pechino, che nella sua ormai conclamata lotta alla fuga di capitali e al Fintech troppo libertino tenta con cadenza periodica di riportare nelle proprie piazze, Shanghai e Hong Kong, le imprese fuggiasche, minacciando repressioni in patria.

Ora il canovaccio si arricchisce di un nuovo capitolo. Il governo degli Stati Uniti è ormai pronto a formalizzare le pratiche per spingere le aziende sgradite, quando non pericolose, a lasciare Wall Street. In particolare si tratta di quelle imprese in odore di ambiguità, che si sono cioè rifiutate, totalmente o parzialmente, di aprire i propri registri agli ispettori della Sec, la Consob statunitense, al fine di verificare eventuali operazioni sospette.

Proprio la Sec, come ha scritto la Bloomberg, ha annunciato il suo piano definitivo per mettere in atto la nuova legge, risalente all’ultimo miglio dell’amministrazione Trump, che impone alle aziende straniere di aprire i loro libri contabili al controllo degli Stati Uniti, pena la cacciata dal New York Stock Exchange e dal Nasdaq entro tre anni. Cina e Hong Kong, giova ricordarlo, sono le uniche due giurisdizioni che si rifiutano di permettere le ispezioni nonostante Washington le richieda dal 2002.

Grazie al regolamento in via di definizione da parte della Sec, l’autorità di vigilanza identificherà dunque le aziende che si rifiutano di rendere pubblici i propri bilanci, impedendo l’ingresso nelle data room, imponendo il delisting entro il 2024, in mancanza di un accordo. “Se volete fare affari negli Stati Uniti, la vigilanza deve poter ispezionare i libri”, ha messo in chiaro il presidente della Sec, Gary Gensler.

C’è da dire che l’accelerazione delle autorità americane non sembra sconvolgere particolarmente Pechino. La quale, in tempi di bolla immobiliare, insolvenze di massa da parte dei grandi gruppi statali e privati e di fughe tecnologiche (Bitcoin, ma anche qualche pezzo di Fintech), ha tutto l’interesse a incamerare quei capitali fuggiti troppo in fretta e con il favore della notte. L’ultimo caso è quello della società cinese Didi Global – la più grande azienda al mondo di servizi di trasporto passeggeri – che sta pianificando di procedere con una quotazione a Hong Kong poco prima di intraprendere un delisting da New York.

Didi mira a completare una doppia quotazione primaria a Hong Kong nei prossimi tre mesi. Il programma, nemmeno a dirlo, è stato intrapreso sotto la pressione esercitata da Pechino per il delisting da New York entro giugno 2022. Lo scorso 26 novembre infatti l’Autorità di vigilanza tecnologica della Repubblica popolare aveva chiesto ai vertici della big tech di elaborare un piano per il delisting dalle borse statunitensi, con una richiesta senza precedenti nell’ambiente tecnologico cinese. Ma perché stupirsi?

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