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Il Pakistan alza la voce con la Cina. Il caso del porto di Gwadar

Pakistan

Il porto della città che si affaccia sul mare d’Arabia è finito in mani cinesi da tempo e Pechino sta ostacolando la pesca, uno dei settori trainanti dell’economia costiera pakistana. Ma i problemi di Islamabad con la Cina sono anche altri e riguardano il gas

Il Pakistan non vuole i suoi porti in mani cinesi, più di quanto non lo siano già. E pazienza se la città sul mare d’Arabia di Gwadar, 90 mila abitanti nella provincia del Belucistan, si trova lungo la via della seta tracciata da Pechino, il China-Pakistan Economic Corridor che vale 50 miliardi di dollari di investimenti. Rischiare di mollare del tutto il porto di Gwadar, uno degli hub più strategici del Paese asiatico, alla Cina è troppo, si rischia di finire come uno di quei Paesi africani strozzati a suon di prestiti-trappola. Magari come l’Uganda, che proprio tre settimane fa si è vista letteralmente scippare l’aeroporto di Entebbe, in seguito al mancato rimborso di un prestito alla Exim Bank di Pechino.

No, il canovaccio non deve ripetersi. Il fatto è che Pechino dopo aver allungato le mani sul porto, ha praticamente tagliato fuori dall’economia uno dei settori trainanti per le regioni pakistani che si affacciano sul mare, la pesca.  E allora i portuali e pescatori pakistani sono scesi in piazza contro le mire cinesi. Un enorme sit-in di protesta è da giorni in atto a Gwadar, guidato da Maulana Hidayat ur Rehman, leader politico locale che ha attirato migliaia di persone nel Movimento Give Rights to Gwadar. I manifestanti, molti dei quali donne, sono accampati all’ingresso del porto. Chiedono la fine della pesca d’altura da parte dei pescherecci a strascico nelle acque vicine, la rimozione dei controlli di sicurezza in città e un commercio più libero con il vicino Iran.

I residenti locali hanno spiegato che non c’è mai stata una protesta così grande nella storia di Gwadar. D’altronde, i due terzi della popolazione locale dipendono dalla pesca per il proprio sostentamento. Ciò spiega l’opposizione ai pescherecci da traino d’altura, che trascinano reti grandi e appesantite lungo il fondo del mare, spazzando via tutto sul loro cammino. E le imbarcazioni cinesi sono tra queste, causando risentimento tra i pescatori locali. L’anno scorso, i pescatori di Gwadar hanno protestato quando è stato riferito che a 20 pescherecci cinesi d’altura era stato permesso di pescare nelle acque al largo del porto pakistano A luglio, cinque pescherecci cinesi d’altura sono stati sequestrati dall’Agenzia per la sicurezza marittima pakistana vicino a Gwadar con del pesce a bordo.

Al netto della questione pesca, il governo di Islamabad è con l’acqua alla gola per ben altri motivi. E c’entra sempre la Cina. Tutto ruota intorno agli interessi per 3 miliardi di dollari legati a un prestito da 31 miliardi concesso dalle banche statali cinesi per finanziare in larga parte la realizzazione di infrastrutture energetiche di tipo take or pay (clausola inclusa nei contratti di approvvigionamento del gas naturale, ai sensi della quale l’acquirente è tenuto a corrispondere comunque, interamente o parzialmente, il prezzo contrattuale di una quantità minima di gas prevista dal contratto, anche nell’eventualità che non ritiri il gas) in Pakistan, Paese non ancora autosufficiente dal punto di vista dell’approvvigionamento di energia e alle prese con una crescita a dir poco anemica. Progetti inseriti nell’ambito del medesimo Corridoio economico Cina-Pakistan, sorta di via della Seta cucita su misura per le esigenze di Islamabad.

Il ministero dell’Economia pakistano ha chiesto alle autorità cinesi la ristrutturazione del debito. Ottenendo un secco no. Pechino si è rifiutata di ristrutturare 3 miliardi di dollari di passività in scadenza che Islamabad probabilmente non pagherà a causa della sua scarsa capacità di crescita. Andando incontro a delle conseguenze, visto che la probabile inadempienza del Pakistan potrebbe far scattare le micidiali clausole tipiche dei prestiti cinesi. Nel complesso, l’esposizione del Paese asiatico con il Dragone sul fronte degli impianti a contratto take or pay, ammonta a 19 miliardi di dollari, mentre i restanti debiti riguardano la costruzione di altri siti energetici, di cui Islamabad ha un disperato bisogno. Il no della Cina rischia comunque di complicare ulteriormente la delicata situazione debitoria pakistana.
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