Richard Moore, nel suo primo intervento pubblico da direttore dell’MI6, ha sottolineato l’importanza di aggiornare gli strumenti dell’intelligence per partite sempre più difficili ma senza perdere di vista il legame di fiducia tra cittadini, classe politica e servizi di informazione. L’analisi di Adriano Soi, docente di Intelligence e sicurezza nazionale presso la Scuola di Scienze politiche “Cesare Alfieri” di Firenze
Richard Moore, il nuovo direttore del Secret Intelligence Service, più noto al grande pubblico come MI6, ha radicalmente cambiato la linea della comunicazione pubblica dell’Agenzia in cui milita da 34 anni: un anno dopo l’assunzione della carica – rompendo una storica tradizione di riservatezza appena attenuata dal suo immediato predecessore, Sir Alexander Younger, verso la fine del suo mandato – si è reso protagonista di una doppia uscita pubblica, rilasciando prima un’intervista alla BBC Radio 4 e tenendo poi un discorso all’International Institute for Strategic Studies di Londra (i contenuti dei due interventi sono stati efficacemente sintetizzati il 30 novembre scorso da Gabriele Carrer per Formiche.net in un’analisi intitolata “Più aperti per essere più segreti. Il ‘C’ Moore racconta i servizi inglesi”).
La chiarezza e la linearità delle affermazioni di Moore fanno sì che queste costituiscano, nel loro insieme, una sorta di introduzione all’intelligence, la cui lettura è consigliabile a tutti gli appassionati della materia e, più in generale, a chi si occupa, o aspira a occuparsi, di questioni riguardanti la sicurezza nazionale.
Gli aspetti meritevoli di essere approfonditi e commentati sono molti, dalla perdurante importanza attribuita alla humint pur in un’epoca di crescente diffusione dell’intelligenza artificiale, alla necessità di reclutare risorse umane della migliore qualità, per affrontare con successo i problemi legati alla comprensione e interpretazione di scenari complessi, così come al contenimento dell’influenza di attori statuali assolutamente straordinari per forza, risorse disponibili e capacità di iniziativa, prima tra tutti la Cina.
Lo spazio disponibile in questa sede, tuttavia, consente di svolgere solo qualche breve ma necessaria riflessione su un’affermazione di Moore: “per rimanere segreti, dovremo diventare più aperti”. Le sue parole mettono in rilievo la necessità di attenuare, almeno per alcuni aspetti, con gradualità e a precise condizioni, il regime di segretezza che tutela i sevizi di informazione per la sicurezza, i loro appartenenti e il loro operato. Una necessità da lui stesso talmente avvertita da averlo spinto a rompere il silenzio fin dall’inizio del suo incarico.
Il nuovo “C” si rende conto ovviamente di camminare sul filo di un paradosso, al quale tuttavia conferisce un risalto così forte da non lasciare dubbi che proprio lo scioglimento nei fatti di questa contraddizione costituirà uno dei suoi principali impegni.
Forti sono anche le argomentazioni che usa a sostegno della sua scelta di rendere l’MI6 meno segreto, in quanto possibile: la prima è che si tratta di un elemento fondamentale per permettere al Servizio di onorare davvero e sino in fondo la responsabilità di cui è investito dal sistema democratico in cui operare. Una conoscenza più ampia dell’operato del Servizio ne rende più verificabile la rispondenza alle missioni istituzionali, motivando di più e meglio il sostegno del governo e dei cittadini.
Si tratta di una vera e propria sfida, che presuppone una buona dose di sicurezza e di fiducia nella propria organizzazione e nella lealtà istituzionale degli appartenenti al Servizio, sulle cui capacità di svolgere il proprio lavoro con “disciplina e onore” (se qui ci è consentito usare il lessico dell’articolo 54 della nostra Costituzione) Moore scommette con decisione, evidentemente confortato dai trentaquattro anni di militanza nei ranghi di uno dei servizi di intelligence più prestigiosi del mondo.
La seconda ragione della scelta “aperturista” è la natura “mutevole” delle minacce, che purtroppo “C” – evidentemente tornato per un attimo alla sua naturale enigmaticità, certamente dura a morire – non chiarisce meglio. Naturalmente potremmo fare diverse ipotesi, prima tra tutte quella legata alla minaccia cibernetica che, investendo sia soggetti pubblici che privati, rende impossibile apprestare strumenti efficaci di prevenzione, difesa, resilienza e reazione senza una collaborazione aperta e ben organizzata tra i due campi, ivi inclusa, naturalmente, l’intelligence, per quanto attiene alle sue specifiche missioni.
Oggi che il confronto tra democrazie e sistemi autoritari si fa ogni giorno più aspro, il discorso del capo del Sis lancia un segnale incoraggiante: nello stesso momento in cui una delle più antiche democrazie del mondo è attenta ad aggiornare il proprio strumento di intelligence per giocare partite sempre più difficili, non perde di vista la necessità di dotarsi di strumenti che rafforzino il legame di fiducia tra cittadini, classe politica e servizi di informazione.
Questa era, del resto, anche l’ispirazione della legge di riforma dell’intelligence italiana, approvata nel 2007, un’ispirazione che forse merita di essere rivitalizzata.
La scommessa di “C” è importante, gli auguriamo di vincerla.
(Foto: BBC)