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Stabilizzare la Libia e i rischi del (non) voto. Di Maio e Mangoush a Med ’21

La Libia è a un bivio: il voto del 24 dicembre potrebbe stabilizzare definitivamente il Paese oppure farlo piombare di nuovo nel caos. Il premier Draghi e il ministro Di Maio ne hanno parlato al MED2021, dal cui palcoscenico la ministra Mangoush ha alzato l’attenzione sui migranti

Se la “sfida più immediata per l’Italia è la stabilizzazione della Libia”, come ha detto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, intervenendo oggi al MED2021 di Ispi, allora è altrettanto prioritario seguire com attenzione le dinamiche interne che stanno accompagnando il paese alle tanto auspicate elezioni – previste secondo quanto prescritto dalle Nazioni Unite per il 24 dicembre.

La cornice è stata consolidata dalla Conferenza di Parigi – co-presieduta da Francia, Germania e Italia – in cui gli attori libici sono stati chiamati dalla Comunità internazionale a impegnarsi costruttivamente per un processo elettorale libero, equo, inclusivo e credibile. Tra l’impegno e i fatti c’è di mezzo una realtà complessa: le divisioni che hanno impantanato il Paese in un decennio di guerre.

A queste vanno aggiunte le interferenze esterne, la presenza di interessi di attori proxy che sul teatro libico si sono materializzati anche attraverso l’impiego di combattenti ibridi, inviati per dare manforte ai due fronti in guerra senza esposizioni dirette. Presenze che si trovano ancora sul terreno, sia in Tripolitania che in Cirenaica, e che rappresentano un elemento di vulnerabilità in una fase così delicata come quella elettorale.

Sempre dal palcoscenico fornito dall’Ispi, anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha individuato sulla Libia l’epicentro delle criticità del Mediterraneo – condizione legata anche all’allungamento di interessi e ingerenze di attori esterni, contro cui Draghi ha diverse volte preso posizione. Le elezioni sono viste da più parti come la via per risolvere una buona parte delle crisi, ma restano perplessità sul clima caotico (e diviso) che sta accompagnando le candidature alle presidenza.

Negli ultimi giorni, Saif al Islam Gheddafi, il secondogenito dell’ex rais libico ucciso dieci anni fa, è stato ammesso a partecipare alle prossime elezioni presidenziali, e con lui la Corte d’appello di Tripoli ha accolto anche il ricorso presentato dall’attuale premier Abdelhamid Dabaiba. Entrambi candidadbili, nonostante sul primo pendano accuse di crimini di guerra da parte dell’Aia e l’altro dovesse restare fuori dalla competizione secondo le regole del Foro di dialogo libico (l’organismo onusiano che lo ha eletto a inizio anno) e della bozza di legge elettorale presentata dal presidente del Parlamento, Aguila Saleh Issa.

Il nodo al momento è proprio l’assenza di una legge elettorale vera e propria. Draghi, a Parigi, aveva insistito affinché il parlamento libico votasse rapidamente una regola chiara, per evitare effetti dopo il voto. La Francia e l’Onu (o meglio l’inviato speciale dimissionario Jan Kubis) sono invece favorevoli a votare comunque, anche senza legge definitiva. Questo comporta l’impossibilità di escludere chiunque dalla novantina di candidati, e in corsa resterà anche il capo-miliziano Khalifa Haftar (responsabile dell’aggressione a Tripoli che ha causato l’ultima guerra).

Davanti a una schiera eterogenea di candidati (il regista Khalifa Abo Khraisse su Internazionale elenca tra questi “ex leader di milizie, uomini d’affari accusati di corruzione, presunti spacciatori, ex membri dell’élite ai tempi del regime”) la domanda è: come saranno recepiti i risultati dagli sconfitti? E da quegli attori esterni che hanno piazzato radici tra gli interessi disposti sui due lati della Libia? Perplessità su questo erano state esposte dall’analista Dario Cristiani (GMF), mentre Daniele Ruvinetti (Med Or) – pur condividendo preoccupazioni – ragionava sul fatto che il voto fosse lo step necessario adesso.

Da destabilizzazioni post-elettorali sarebbe l’Italia a risentirne più direttamente tra gli europei. La potenziale esplosione di un nuovo conflitto, ma anche il perdurare di uno status quo disequilibrato potrebbe produrre un collegamento diretto con il quadro migratorio: il contesto caotico libico ha prodotto gruppi di potere che agiscono per interesse sul mercato degli esseri umani che arriva da sud. In questi giorni, il New Yorker ha pubblicato un lungo reportage firmato dal giornalista statunitense Ian Urbina, il quale ha raccontato di essere stato rapito e imprigionato in Libia mentre stava indagando sui campi di detenzione in cui vengono rinchiusi i migranti che cercano di arrivare in Europa via mare. I campi sono gestiti anche da gruppi armati spregiudicati.

Del tema se n’è occupata sempre al MED2021 la ministra degli Esteri del governo di transizione, Najla el Mangoush, che ha questionato: “I migranti meritano che i loro diritti umani siano rispettati. È un disastro che non accada. Noi libici al Governo sappiamo di non poter garantire i loro diritti in questo momento, ma dall’Europa non è mai giunto un aiuto in questo senso”. “Neppure voi [europei], con tutti i vostri sistemi di sorveglianza, riuscite a sorvegliare i vostri confini. Come potete aspettarvi che sia la Libia a farlo?”, ha detto. E ancora: “Se due dei paesi più stabili al mondo, come Francia e Regno Unito, non possono controllare l’immigrazione illegale, come dovrebbe controllarla la Libia?”.

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