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La democrazia nel XXI secolo. Il summit visto da Mayer

La convocazione del Summit per la democrazia è una scelta lungimirante e potrebbe assumere un rilievo storico cercando di invertire una tendenza iniziata nei primi anni Duemila

Il Summit per la democrazie inaugurato in formato virtuale da Joe Biden è parte di un progetto politico lanciato dal presidente degli Stati Uniti durante la campagna elettorale con un articolo pubblicato sull’autorevole rivista di politica internazionale Foreign Affairs.

In questi giorni la lista degli invitati ha suscitato negli osservatori reazioni contrastanti.  Alcuni hanno accusato la Casa Bianca di aver dato troppo spazio alla realpolitik. Altri, al contrario, di non averne tenuto conto a sufficienza criticando l’inclusione di Taiwan (uno sgarbo a Pechino) e l’esclusione di due alleati della Nato, Turchia e Ungheria, quest’ultima anche membro dell’Unione europea.

Pare evidente che Casa Bianca e dipartimento di Stato abbiano scelto sulla base di proprie valutazioni politiche senza seguire meccanicamente i criteri del tasso di “democraticità” delle nazioni adottato da organizzazioni come Freedom House, Amnesty International, Human Rights Watch, Transparency International.

La convocazione del Summit è una scelta lungimirante e potrebbe assumere un rilievo storico. Rappresenta il punto di partenza di un intenso anno di lavoro che dovrebbe concludersi alla fine del 2022 con un vertice in presenza. Finalmente in America e a livello globale sarà possibile avviare un serio dibattito pubblico sul futuro della democrazia e sulla democrazia del futuro.

Qualcuno – forse non a torto – ha commentato “meglio tardi che mai”. In effetti è dal 2003, cioè dal conflitto in Iraq, che l’immagine internazionale gli Stati Uniti come caposaldo della libertà e della democrazia si è progressivamente logorata, in primis in Europa, ma anche in altri parti del mondo. Questo appannamento è una delle cause del declino della democrazia che si è manifestato negli ultimi 15 anni.

Tuttavia, sarebbe sbagliato addossare tutte le colpe alla miopia degli Stati Uniti. L’analisi empirica del funzionamento delle democrazie mette, infatti, in evidenza come tutte le democrazie abbiano avuto grandi difficoltà nel rispondere ai mutamenti intervenuti nell’arena politica internazionale.

Quatto grandi fenomeni hanno messo in difficoltà le democrazie. Primo: la globalizzazione economica (in particolare per la delocalizzazione e la conseguente perdita di posti di lavoro). Secondo: la rivoluzione digitale (pesanti interferenze e disinformazione da Russia, Cina, Corea del Nord, Iran, Bielorussia, ruolo di Big Tech, eccettera). Terzo: la pandemia (per le restrizioni alle libertà e il proliferare di movimenti antisistema No Vax e No Green Pass. Quarto: le gravi conseguenze sociali del cambiamento climatico (per esempio la forte correlazione tra desertificazione e grandi flussi migratori).

Il paradosso è che queste quattro sfide globali mettono oggettivamente ancor più in crisi i paesi autoritari o semi autoritari. Nelle ultime dieci settimane la Russia ha registrato una tragica impennata di decessi da Covid-19 con più di 80.000 morti in 70 giorni. La presuntuosa “diplomazia dei vaccini” è finita da tempo e nelle prossime settimane la Duma dovrebbe assumere provvedimenti più incisivi, ma certamente tardivi.

Negli ultimi venti anni la Russia ha tentato con vari mezzi di svilire la democrazia. I lettori interessati alle più recenti campagne di disinformazione di Mosca possono consultare l’ampia documentazione prodotta nei mesi scorsi dal Parlamento europeo.

Nella propaganda russa c’è una espressione che merita particolare attenzione:   “democrazia sovrana”. È stata coniata nel 2006 da Vladislav Surkov, uno dei più influenti consiglieri di Vladimir Putin, definito da molti la vera eminenza grigia del presidente russo. Nei suoi scritti dichiara apertamente che l’importante è dare ai cittadini l’illusione che la democrazia esista (anche se nella realtà esiste soltanto sulla carta). Per Surkov, la democrazia sovrana è, in verità, democrazia addomesticata.

Gli interventi di Putin al suo evento preferito, il Valdai Club, indicano che nel suo pensiero politico c’è un costante e strettissimo collegamento tra la sovranità in politica interna e quella in politica estera. La democrazia sovrana (che sarebbe più giusto rinominare “democrazia a sovranità assai limitata”) ha per Putin (e per Sukov) una doppia funzione. Da un lato serve a conservare indefinitamente il potere al Cremlino; dall’altro è condizione per esercitare la politica di potenza della Russia a livello internazionale, a partire dalla Crimea e dall’Ucraina. Nel febbraio del 2020 (forse per avere soffiato troppo sul fuoco in Ucraina) Surkov è stato costretto da Putin a lasciare il Cremlino. Ma lui e la sua democrazia sovrana potrebbero diventare uno dei protagonisti della Russia post putiniana.

In merito al Summit per la democrazia la Cina segue un approccio diverso rispetto sulla Russia. Come sottolineato su Formiche.net, il 4 dicembre scorso il Consiglio di Stato ha approvato un libro bianco di 51 pagine che si intitola “Cina: la democrazia che funziona”.  Il giorno dopo il ministero degli Esteri cinese ha diffuso un rapporto sullo stato della democrazia negli Stati Uniti attaccando frontalmente il sistema politico americano definito “a game of money politics” e “rule of the few over the many”. Il rapporto contiene dati e opinioni negative allo scopo di mettere in evidenza i presunti svantaggi del sistema democratico degli Stati Uniti.

Tuttavia per la Cina le cose non vanno bene come vorrebbe far credere la propaganda della “democrazia che funziona” . Numerose sono le cose che non funzionano. Quattro esempi: l’inquinamento che deriva dalla costruzione di nuove centrali a carbone; la crisi immobiliare-finanziaria, a partire da Evergrande; la riduzione delle riserve dello Stato sia sulle quotazione internazionale delle aziende cinesi sia sulla piena convertibilità dello yuan; le proteste dei Paesi africani intrappolati dai debiti con Pechino.

Non è difficile rispondere agli ambasciatori a Washington di Russia e Cina, Anatoly Antonov e Qin Gang, che hanno pubblicato un articolo a doppia firma (caso piuttosto raro)  sulla rivista americana National Interest: “Non c’è bisogno di preoccuparsi della democrazia in Russia e in Cina. Certi governi stranieri farebbero meglio a pensare a sé e a quello che succede a casa loro”, scrivono.

È sufficiente ricordare la teoria della pace democratica. Essa dimostra che almeno sinora gli Stati democratici tendono a non farsi la guerra tra di loro. Vi par poco? Le reazioni della Cina e della Russia sopracitate non debbono preoccuparci più di tanto.

Il vero nodo che le democrazie devono affrontare è un altro. Come accennato nei paragrafi precedenti, l’arena politica internazionale è cambiata e il nesso tra politica interna e politica estera è sempre più stretto: rispetto al passato incide ciò che accade (e muta rapidamente) fuori dai confini nazionali di più sul funzionamento dei sistemi politici nazionali. La democrazia del futuro deve fare i conti con questo dato di fatto.

Non è una novità assoluta. Questo tema è stato già affrontato da importanti studiosi di relazioni internazionali quali Raymond Aron, Joseph Nye, Robert Putnam e Angelo Panebianco. Ma ora serve un salto di qualità. È urgente che gli studiosi esplorino nuovi orizzonti del pensiero politico. L’intreccio sempre più inestricabile tra politica interna e politica internazionale mette a rischio la sopravvivenza della democrazia.


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