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Gli Usa cercano la pace in Etiopia. E il contenimento turco

Il prossimo inviato che per Washington tratterà le questioni del Corno d’Africa potrebbe essere l’ex ambasciatore in Turchia Satterfield: gli Usa vogliono che a seguire la regione sia qualcuno che abbia relazioni con Ankara. Il caso dell’Etiopia spiega perché

L’inviato degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, fa visita in Etiopia per colloqui con alti funzionari governativi in mezzo a nuove speranze per un cessate il fuoco duraturo nel conflitto tra Addis Abeba e i ribelli del Tigray. Guerra che va avanti da 14 mesi e ha già prodotto una crisi umanitaria.

Da novembre, quando le truppe del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) si sono fatte strada verso sud, arrivando a 200 miglia dalla capitale Addis Abeba, il governo ha lanciato un’offensiva per respingere i tigrini più a nord, fuori da Afar e Amhara e di nuovo nella loro regione di origine.

La campagna militare è stata dura, a tratti spietata: su entrambi i fronti pesano accuse di crimini di guerra, non discriminazione dei bersagli, sabotaggi degli aiuti umanitari, azioni violente contro i civili. Gli Stati Uniti hanno seguito costantemente la vicenda, facendosi capofila delle richieste di de-conflicting della Comunità internazionale, anche con misure punitive nei confronti dei governativi.

Poi il 21 dicembre i ribelli hanno annunciato la non belligeranza, fermato le armi e messo il primo ministro Abiy Ahmed – un ex Premio Nobel per la Pace un tempo molto amato dall’Occidente che durante il conflitto non si è risparmiato visite propagandistiche al fronte e attacchi violenti – davanti alla necessità di trattare.

L’arrivo di Feltman fotografa la situazione: Abiy Ahmed deve cercare di recuperare il danno che la sua immagine internazionale ha subito durante i mesi di conflitto, in cui ha cercato di chiudere le comunicazioni in uscita dal Paese, ha accettato scomodi aiuti militari dall’estero (da Turchia, Iran, Emirati).

Secondo alcuni dati raccolti da gruppi di aiuto umanitario, almeno 143 persone sono state uccise e 213 ferite da ottobre in attacchi aerei indiscriminati. Quasi tutti i raid degli ultimi mesi sono stati condotti con droni di fabbricazione Bayraktar, con la riscossa governativa che ha portato i tigrini al cessate il fuoco che è diventata “un’altra pubblicità per l’efficacia dei droni turchi, con il supporto aereo relativamente economico che si è dimostrato strumentale nel colpire le forze Tplf”, come scrive Foreign Policy.

Quello etiope è un altro esempio di come i droni turchi siano diventati rapidamente una forza nelle zone di guerra del 21° secolo, raccogliendo ottimi risultati nella guerra civile in Libia (ribaltando le possibilità della Cirenaica di conquistare Tripoli), aver dato la vittoria all’Azerbaijan nel suo conflitto con l’Armenia nel Nagorno-Karabakh, ed essere diventati una delle ragioni per il rafforzamento militare della Russia vicino ai confini ucraini.

Per la Turchia, i droni sono un metodo per collegare forniture militari – effettuate senza troppe remore etico-morali – alle questioni di politica internazionale. Se in alcuni queste commesse politico-militari turche sono in parte accettate da Washington, perché si sostituiscono a ruoli simili che Russia e Cina vorrebbero giocare in alcuni paesi, in altri contesti sono considerate più problematiche. L’Etiopia, con il suo valore all’interno di un’area assolutamente strategica e altamente instabile, rientra tra queste ultime.

La visita di Feltman è molto probabile che sia la sua ultima nella regione come inviato degli Stati Uniti:  le sue imminenti dimissioni sono state anticipate mercoledì dalla Reuters, che ha anche annunciato chi sarà il sostituto: David Satterfield, che lascerà la guida dell’ambasciata americana in Turchia. E potrebbe non essere un caso se a occuparsi del Corno d’Africa per Washington sarà un conoscitore delle dinamiche turche con ottimi rapporti ad Ankara.

Recep Tayyp Erdogan ha lavorato molto per spingere la propria penetrazione in Africa, e l’area del Corno (insieme al Nordafrica, al Sahel) fa parte delle attività strategiche che la Turchia sta portando avanti nella porzione centro-settentrionale del continente. Da un lato queste attività vengono viste positivamente dagli americani, perché i turchi sono membri Nato e alleati; dall’altro le dinamiche spinte da Erdogan dimostrano tutte le ambiguità del presidente turco, seguono sforzi competitivi contro l’Occidente (anche sul piano dei modelli), spesso diventano via per indurre destabilizzazioni secondo i propri interessi.



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