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Sudan, chi guadagna dalle dimissioni di Hamdok?

Hamdok lascia il governo: il Sudan è totalmente in mano ai militari e rischia di tornare indietro ai tempi dell’autoritarismo di Bashir. Le pressioni americane, gli spazi per gli attori internazionali che “combattono” le democrazie liberali

Il primo ministro del Sudan, Abdalla Hamdok, si è dimesso con una decisione che definisce “irrevocabile” e che apre uno scenario di ulteriore instabilità nel processo di transizione, che poco più di due mesi fa era stato interrotto dal golpe con cui l’ala militare aveva arrestato lo stesso premier e alcune figure del governo.

Il Sudan, Paese nevralgico dal punto di vista geostrategico e per questo sotto le attenzioni di diversi attori esterni, sta seguendo un percorso di transizione dopo la caduta del dittatore Omar Bashir. A Khartoum governa una diarchia tra politici e militari che ha l’obiettivo di portare la popolazione alle urne (teoricamente nel luglio 2023).

L’equilibrio è instabile, la mossa con cui Abdel Fattah al-Burhan, il generale a capo del Consiglio di transizione militare, ha arrestato Hamdok a ottobre ne è dimostrazione. Sotto le pressioni degli Stati Uniti e dell’Unione europea, il premier e il comandante (e i gruppi di potere a cui appartengono) avevano trovato una soluzione per reintegrare il primo nel percorso, ma da settimane il Paese è pervaso da proteste.

I manifestanti prima chiedevano giustizia per Hamdok, protestavano contro l’arresto e contro il golpe, e ora contro la presenza dei militari nel sistema amministrativo – un’aliquota per ora minoritaria ha iniziato a contestare lo stesso premier, accusato di aver ceduto a compromessi con i militari e dunque essere colluso con questi. Le autorità hanno represso la folla: ci sono stati tanti feriti e 60 morti, gli ultimi quattro lungo le strade della capitale domenica 2 gennaio.

Il primo ministro non ha retto e confermato in modo definitivo le dimissioni – che da una decina di giorni erano “congelate”. Hamdok cerca di sganciarsi da questa fase in cui nel Paese c’è un “nemico comune che non rispetta la santità del sangue e non disdegna la perdita di vite umane”, come ha detto il suo capo di gabinetto in una dichiarazione. Per lui c’è la possibilità di fare di nuovo parte del futuro sudanese in un momento successivo, che potrebbe crearsi se le pressioni internazionali dovessero portare a un passo indietro di al Burhan.

Il premier non vuole restare coinvolto nelle repressioni su chi inneggia “potere al popolo” e si accoda ai manifestanti nel chiedere che l’amministrazione sudanese sia totalmente in mano ai civili. Il rischio è che l’aliquota di chi lo contesta cresca, perché visto come capo del governo mentre i militari reprimono con violenza i manifestanti e chiudono Internet (ossia impediscono ai sudanesi di raccontare al mondo cosa succede nel proprio paese).

“Ho provato di tutto per salvare [il Sudan] dal disastro […] ma nonostante tutto quello che è stato fatto mi rendo conto di non esserci riuscito”, ha detto Hamdok in un discorso televisivo, aggiungendo che ci si trova davanti a una “pericolosa svolta che minaccia l’intera sopravvivenza” del Paese.

Il primo gennaio era il giorno dell’indipendenza sudanese, e anche per questo le manifestazioni si sono riaccese. Le dimissioni di Hamdok mettono effettivamente tutto il potere in mano alla componente transizionale militare, ma contemporaneamente sono un duro colpo per Buhan e i suoi uomini, che speravano di trovare attraverso il nuovo accordo con Hamdok calma dai manifestanti e legittimazione per la loro permanenza nel percorso (presenza che invece doveva venir meno da quest’anno, verso una composizione totalmente civile dell’amministrazione).

L’attuale crisi politica ora minaccia di riportare il Sudan agli anni autoritari di Bashir, e c’è anche il rischio che il Paese possa tornare a essere uno Stato paria, sottoposto a misure stringenti, isolato e dunque aperto a determinate dinamiche. Gli Stati Uniti hanno già indicato di voler sanzionare coloro che impediscono il ritorno a un governo civile, ma il rischio è che altri attori internazionali (come la Russia per esempio) ottengano guadagni dal caos e da questo isolamento.

Isolamento che sarebbe anche frutto secondario dell’impossibilità dell’Occidente democratico di mantenere relazioni con la componente militare golpista e autoritaria; e qui Mosca potrebbe trovare spazio (spazio che per altro rientra di nuovo in quello scontro tra modelli, democratico contro autoritario, che è tema delle relazioni internazionali globali). Data la condizione economica deleteria del Sudan, tutto questo potrebbe avere un effetto ancora peggiore sulla vita dei sudanesi.

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