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Senza un approccio geopolitico il Green Deal europeo rischia di fallire

La spinta verde e le decisioni climatiche di Ue e Usa peseranno sempre più sulla scena internazionale. Tra materiali critici, approvvigionamento energetico e allineamento regolatorio, ecco le sfide all’orizzonte – e perché l’intesa transatlantica può cambiare il volto della transizione globale

Il Green Deal su cui l’Unione europea dibatte da mesi è uno sforzo titanico nella sua ambizione, che promette di ridefinire l’intera economia dell’Ue nei prossimi trent’anni per raggiungere la neutralità climatica (zero emissioni nette) nel 2050. Si parte dall’invertire il rapporto tra fonti fossili e rinnovabili nel mix energetico europeo, che oggi equivale circa a due terzi contro un terzo.

Per arrivarci Bruxelles si è immaginata una strategia per rendere inesorabile la propria transizione energetica e incoraggiare quella dei Paesi terzi. Il trucco è implementare misure come la tassa di aggiustamento del carbonio al confine, o Cbam, che di fatto rende svantaggioso commerciare con l’Europa senza adeguare i propri standard di decarbonizzazione.

Questo cambiamento sistemico si ripercuoterà ben oltre i confini dell’Ue, con effetti dirompenti. “La politica climatica è intensamente geopolitica. Ciò implica che avrà elementi di cooperazione e coercizione internazionale”, ha asserito Jeremy Shapiro, direttore della ricerca dell’European Council on Foreign Relations (Ecfr), parlando a un webinar del think tank americano Wilson Center dedicato agli impatti del Green Deal europeo.

Ben altre dipendenze

Secondo l’esperto “il Green Deal cambierà le relazioni tra l’Ue e i suoi vicini e ridefinirà la politica globale. Alcuni elementi del piano saranno contrastati da partner e avversari, genereranno una risposta geopolitica. Se la componente di politica estera non funziona, allora l’intero sforzo crollerà – e c’è una consapevolezza molto diffusa di ciò a Bruxelles”.

Non serve andare troppo lontani per accorgersi delle implicazioni. Si parte dalle nazioni esportatrici di fonti fossili, come la Russia (da cui arriva il 40% del gas naturale europeo), i Paesi mediorientali e nordafricani. La domanda decrescente di fonti inquinanti impatterà pesantemente questi Paesi, ha puntualizzato Shapiro, considerando che le loro economie – o addirittura la stabilità dei loro ordinamenti – è basata sull’esportazione di fonti fossili, un mercato che nel 2018 in Ue valeva quasi 300 miliardi di euro.

C’è poi il discorso della sicurezza energetica, salito dolorosamente alla ribalta nel 2021 con l’impennata del prezzo del gas causata anche dalla manipolazione a opera della Russia di Vladimir Putin. L’Ue ha sposato la generazione di energia rinnovabile come panacea dell’indipendenza energetica, ma persa una dipendenza se ne fa un’altra. Non è affatto inverosimile, infatti, che gli energivori Ventisette finiscano per diventare dipendenti dall’elettricità pulita e dall’idrogeno verde prodotti sulle coste nordafricane, per esempio.

Infine, non è pensabile portare avanti la transizione verde senza i materiali che sono alla base della green tech: metalli e terre rare. Peccato che l’Ue non disponga di miniere e catene di produzione indipendenti. A oggi la Cina è la prima produttrice ed esportatrice delle materie senza cui ogni genere di decarbonizzazione non è possibile. Insomma, l’Ue non ha in mano tutte le carte per fare solo di testa propria: le interconnessioni economiche e politiche da cui passano gli approvvigionamenti strategici lasciano agli attori terzi ampio spazio di manovra per mettersi di traverso.

Rivali e alleati

Per questi motivi i Paesi investiti dalla pressione verde dell’Ue potrebbero reagire in maniera negativa davanti a una misura come la Cbam. Questo vale tanto per gli avversari geopolitici quanto per i partner, Stati Uniti in primis.

Con Joe Biden le direzioni di Usa e Ue non sono mai state così convergenti, ha spiegato Shapiro, ma rimangono differenze fondamentali: i primi esportano fonti fossili verso i secondi e il loro approccio alla transizione è più sbilanciato verso l’innovazione tecnologica rispetto alla regolamentazione. Questo rende molto più difficile allineare i sistemi e lascia la porta aperta a nuove frizioni.

Se poi la prossima amministrazione americana fosse in mano ai repubblicani, ha continuato Shapiro, questi potrebbero fare marcia indietro sul progresso ambientalista di Biden e allargare ulteriormente il divario tra Usa e Ue. Ma gli stessi democratici potrebbero finire per competere con gli europei per la leadership climatica globale. Infine, non si può sottovalutare il fatto che il Green Deal europeo essenzialmente metta in conto ingenti sussidi per la transizione, che gli Stati Uniti potrebbero interpretare come un eccesso di protezionismo.

Se questo può accadere tra alleati e partner come Washington e Bruxelles, figurarsi che piega può prendere la pressione ambientalista con un avversario strategico. Dunque occorre un esercizio di flessibilità, o forse realpolitik, per non mandare immediatamente in fumo i piani europei in nome del fondamentalismo verde.

Tra Campbell e collaborazione

A tal proposito può essere utile guardare ai due competitor geopolitici più potenti in campo, ossia Stati Uniti e Cina, rivali in tutto ma decisi a collaborare sul clima secondo la dottrina Campbell. Questa prende il nome da Kurt Campbell, esperto di Cina e coordinatore degli Affari indo-pacifici del Consiglio di sicurezza nazionale statunitense, un organo che si colloca nell’immediata prossimità del presidente.

Giovedì scorso Campbell ha reiterato che la cooperazione climatica con Pechino sarà per Washington “l’elemento più importante” del prossimo decennio, da sostenere con mezzi diplomatici e coinvolgimento costruttivo a prescindere dalle altre sfide in campo. Il motivo è semplice: non si può fare altrimenti, la Cina emette il 28% dei gas climalteranti, senza di essa la sfida è persa in partenza. E infatti le due superpotenze si sono già dimostrate capaci di collaborare: alla Cop26 di Glasgow Cina e Usa hanno siglato un patto per lavorare assieme.

Se possono riuscirci loro, allora la collaborazione tra Usa e Ue diventa praticamente un dovere. Anche solo per la loro capacità congiunta di influenzare la politica internazionale, conviene che agiscano insieme sul clima. “Abbiamo interesse a garantire che il regime commerciale globale e le politiche [portino a] più azione per ridurre la crisi climatica”, ha detto David Livingston, senior advisor dell’inviato speciale di Biden per il clima John Kerry al webinar del Wilson Center. “Gli strumenti commerciali possono essere usati per incoraggiare l’adozione globale di soluzioni verdi”.

L’Ue è già a buon punto nell’implementare la Cbam, ha continuato, e gli Usa “rimarranno molto interessati ai colloqui. Non dovremmo anche perdere di vista questi meccanismi che ci danno l’opportunità di coordinarci con il commercio delle tecnologie climatiche: gli alleati sono già nella posizione di favorire l’allineamento, nei forum internazionali (G7, G20, Cop…) e nei bilaterali inaugurati nel 2021, come il Ttc e il Gruppo di azione climatico“.

Da parte sua, anche l’Ue ha segnalato che starà attenta alle istanze americane. “Siamo felici di lavorare con gli Usa” ha dichiarato Anne Bergenfelt, senior advisor del capo della diplomazia europea Josep Borrell; “vorremmo anche fare di più con loro, abbiamo molti gruppi di lavoro e vertici di successo”. Resta da vedere se Bruxelles saprà esercitare quel grado di flessibilità necessario per non affossare lo sforzo congiunto.



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