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Il Web3 (per ora?) non è né decentralizzato né libero

La caratteristica principale dovrebbe essere la decentralizzazione del potere, non più in mano alle piattaforme digitali ma equamente distribuito agli utenti. Molti però avvertono di come la direzione intrapresa sia sbagliata, una replica di quanto accaduto con il Web 2.0 ma con soggetti diversi

Quando Jack Dorsey si è trovato a dover riassumere il senso del Web 3.0, twittava: “In definitiva, è un’entità centralizzata con un’etichetta diversa”. Quella dell’ex Ceo di Twitter, abbandonato per dedicarsi interamente all’altra sua azienda, Block, è una verità che molti esperti del settore cercano di far comprendere ai più e che non piace a chi si sta spendendo a favore del Web3. L’ultima versione di Internet, infatti, pretende di imporsi come un nuovo modello digitale deregolamentato, ma secondo molti si tratta solamente di un’altra faccia di quello che già conosciamo. In sostanza, non ci sarà un potere redistribuito a un numero altissimo persone, ma solo un passaggio del controllo di internet in mani differenti.

L’idea alla base del Web 3.0 – o, più semplicemente, Web3 – è quella di un ritorno al Web1, quando Internet era ancora decentralizzato prima dell’evoluzione in Web2.0, che ne ha sancito l’accentramento all’interno delle piattaforme. Come ha scritto nel suo blog personale Moxie Marlinspike, crittografo e fondatore dell’app di messaggistica Signal, una delle ragioni per cui le piattaforme hanno avuto un tale successo è dovuta al fatto che gli utenti non hanno la voglia di essere gli editori di se stessi. Così, hanno delegato la responsabilità. “Se c’è una cosa sul mondo che spero abbiamo imparato”, scrive Marlinspike, “è che le persone non vogliono gestire i propri server”. Al contrario, “le aziende che sono emerse offrendosi di farlo hanno avuto un grande successo”.

L’accentramento ha comportato le conseguenze che oggi ben conosciamo, con le aziende tecnologiche sempre più nel mirino delle autorità proprio perché spesso incappano in un uso sbagliato del potere che detengono. Con il Web 3.0, la distribuzione sarebbe più equa, con gli utenti che assumono un ruolo differente grazie alla blockchain. Eppure, sembrerebbe un’utopia.

Un po’ come il percorso delle criptovalute, nate per sfuggire alle istituzioni economiche ma talmente di moda da diventare esse stesse le istituzioni del Web3, anche il nuovo Internet rischia di assomigliare a un modello già visto. Un esempio viene dalle app attuali. Anche se non si chiameranno più in questo modo trasformandosi in dApp – proprio per sottolinearne la distribuzione meno centralizzata – le loro funzioni rimangono identiche a quelle che utilizziamo. Delle prime cinque, una permette di scambiare le criptovalute, un’altra i Non Fungilble Token (NFT) mentre le altre tre sono dei giochi, con un’unica differenza rispetto ad oggi: l’utente può essere pagato per giocare.

Per scoprire le novità di questo mondo, Marlinspike ne ha create due. Il risultato, però, è stato deludente. “Per essere chiari, non c’è nulla di particolarmente distribuito nelle dApp: sono solo normali siti web” che reagiscono come tali. Pertanto, la distribuzione cambia solo i connotati ma non la sostanza: la blockchain, pertanto, va a sostituirsi alle piattaforme nel controllo del web. Come ha potuto testare con mano il crittografo, esistono due società che permettono alle dApp di interagire con la blockchain, Infura e Alchemy. “Sono stati impiegati così tanto lavoro, energia e tempo per creare un meccanismo di consenso distribuito, ma praticamente tutti i clienti che desiderano accedervi lo fanno semplicemente fidandosi dei risultati di queste due società senza ulteriori modifiche. Inoltre non sembra la migliore soluzione per la privacy. Immagina”, ha chiarito Marlinspike, “se ogni volta che interagivi con un sito web in Chrome, la tua richiesta andasse a Google prima di essere indirizzata” alla ricerca. “Questa è la situazione con Ethereum oggi”.

Quello che scrive sembra essere confermato dalle parole Niels Ten Oever, ricercatore dell’Università di Amsterdam, quando sostiene che il “Web3 sta creando attrito, senza risolvere alcun problema reale. Se costruisci un’architettura distribuita su un’infrastruttura centralizzata, non decentralizzi improvvisamente l’infrastruttura”. Come abbiamo visto, i provider che ospitano le dApp sono pochi, così come pochi sono quelli che sorreggono l’Internet contemporaneo.

A far drizzare le antenne, poi, è anche il fatto che alcuni dei più influenti Ceo di aziende tech stiano concentrando le loro forze per creare il Web3. In sostanza, è come se volessero fuggire dal mondo regolamentato che hanno loro stessi costruito, per crearne uno totalmente nuovo. Parlando del Metaverso, Mark Zuckerberg ha aperto il vaso di Pandora in cui in molti adesso si vogliono gettare, senza però avere ben chiaro cosa si sta andando incontro. Quel che è certo, scrive alla fine del suo blog Marlinspike, è che si tratta di “una corsa all’oro”.

Le persone che lanciano gli NFT “fondamentalmente non si preoccupano dei modelli di fiducia distribuiti o dei meccanismi di pagamento, ma di dove siano i soldi”. Probabilmente un artista sarà entusiasta del fatto che attorno alla sua opera ci sia una speculazione, ma questo non dovrebbe essere alla base del Web 3.0 che si è posto la difficile missione di evitare le falle dell’attuale sistema – come le truffe online – e che invece sembra riprodurle, seppur in modo diverso.

Come si legge su Politico, un utente dovrebbe essere preoccupato tanto del controllo che i governi cercano di ottenere sul mondo digitale tanto quanto le figure di spicco della Silicon Valley – “coloro che hanno portato il bene e il male dell’attuale era digitale” – che tentano di creare un mondo tech decentralizzato. E questo perché non c’è alcuna discussione in atto su come trasformare il Web2 in Web3.

Forse anche per questo, la società di venture capital Andressen Horowitz (nota come a16z e che ha investito, tra le tante, anche in Airbnb, Facebook, Slack e Lyft) ad ottobre scorso si era rivolta direttamente a Washington per portare il tema sul tavolo e iniziare un dibattito in merito. “Il Web3 rappresenta l’alternativa a uno status quo digitale che è francamente rotto. Web3 è l’alternativa, la soluzione che stavamo aspettando. È la risposta alle sfide emerse dal Web2. E per questo motivo, è assolutamente fondamentale che i responsabili politici inizino a intraprendere i passi necessari per ottenere questo risultato”. Un’alternativa che, però, sembrerebbe solo mischiare meglio le carte per riprodurre lo stesso gioco di prima.

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