La sentenza di settimana scorsa pone fine a uno scontro decennale: impossibile dimostrare la colpevolezza dell’azienda Usa di microchip. La sconfitta legale potrebbe causarne delle altre, come quelle pendenti contro Google e costringere il commissario alla concorrenza europea a rivedere la sua strategia
La sentenza della scorsa settimana, con cui la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha annullato la multa da 1,06 euro inflitta a Intel dalla Commissione Ue nel 2009 per abuso di potere, riapre scenari che Margrethe Vestager pensava ormai chiusi. La Corte ha infatti definito incompleta la documentazione presentata dalla Commissione e perciò risulta impossibile dimostrare la colpevolezza dell’azienda statunitense specializzata in microchip. L’accusa era di aver adottato tra il 2002 e il 2007 pratiche illegali per tagliar fuori il suo maggior rivale, ADM (Advanced micro devices). In sostanza, avrebbe pagato e offerto sconti sui microprocessori x86 a Dell, Hp, Nec e Lenovo.
A rendere ancor più amara la sentenza, poi, il fatto che la Commissione non perdeva una causa antitrust da due decenni. Il ribaltone della Corte, quindi, dimostra come l’Ue deve fare di più (e meglio) in termini di anticoncorrenza se vuole vincere le sue battaglie legali contro le grandi aziende tech.
A discolpa della commissaria danese, c’è da dire che tredici anni fa non occupava la posizione ricoperta ad oggi – all’epoca era incentrata nelle dinamiche nazionali del Danmarks Social-Liberale Parti, di cui era leader. Tuttavia, le conseguenze della decisione arrivata da Lussemburgo potrebbero caderle addosso come una bomba d’acqua. Lei stessa ha affermato di voler riflettere su “cosa possiamo imparare dalla sentenza”. La risposta è: molto.
La metafora dell’acqua non è causale, perché è facile intuire come la sentenza potrebbe avere un effetto a cascata su quelle ancora aperte. Su tutte, quella storica contro Google del 2018, sulla cui testa pende una multa da 4,34 miliardi di euro. Per essere più precisi, dal 2011 l’azienda di Sundar Pichai avrebbe adottato delle restrizioni ai produttori Android e ai relativi operatori di rete per garantirsi il primo posto nella ricerca su Internet.
Come si legge sul sito della Commissione, avrebbe richiesto di preinstallare l’app Google Search e il browser Google Chrome come conditio sine qua non per concedere la licenza del suo app store, Google Play; li avrebbe pagati, per assicurarsi che Google Search fosse presente sui dispositivi; infine, avrebbe impedito loro lo sviluppo di qualsiasi “fork Android”, ovvero versioni alternative del sistema operativo non approvate da Google.
“Queste pratiche hanno negato ai rivali la possibilità di innovare e competere nel merito. Hanno negato ai consumatori europei i vantaggi di una concorrenza effettiva nell’importante sfera mobile”, aveva tuonato allora la commissaria Vestager, concludendo lapidaria: “Questo è illegale secondo le norme dell’Ue”. A settembre, Google aveva ceduto agli attacchi dell’Ue.
Con l’assoluzione di Intel, però, tutto questo sarà da analizzare con maggior attenzione e, visto il precedente, potrebbe capovolgere di nuovo la situazione. C’è da scommettere che Google sarà ancora più agguerrita e pronta a dimostrare la sua innocenza, battendosi in appello su ogni cavillo. Già durante le prime udienze i giudici sembravano piuttosto scettici riguardo le irregolarità denunciate da Bruxelles. Ora i dubbi non possono che aumentare.
Ma non esiste solo Google. O meglio, non si ferma ad una sola battaglia la guerra legale tra Ue e il gigante tech. Quasi tre anni fa, l’azienda era stata sanzionata per ulteriori 1,49 miliardi di euro in quanto impediva ai concorrenti, come Microsoft e Yahoo, di inserire i loro annunci di ricerca sui siti web di Google. A novembre era stato rigettato un altro suo ricorso presentato per un’altra mazzata ricevuta dall’Europa nel 2017, pari a 2,4 miliardi di dollari. L’azienda, che si sente tutt’altro che vinta, ha deciso di presentarne uno nuovo a fine gennaio.
Nel 2018, invece, l’altro grande produttore di chip, Qualcomm, era stato multato per 997 milioni di euro per essersi garantito l’esclusività dei microprocessori sui dispositivi Apple. Insomma, lo stesso abuso per distorcere il mercato portato avanti da Google, solo che in questo caso non si trattava di mezzi Android. Si capisce, pertanto, come la sconfitta rimediata dall’Ue contro Intel possa scaturirne delle altre.
La cronaca va però sempre contestualizzata. Il momento storico è cruciale e qualsiasi passo falso potrebbe risultare catastrofico. Eppure, la sconfitta in tribunale potrebbe ripianare i rapporti tra Ue e Intel. Quest’ultima è infatti intenzionata a investire sul suolo europeo 80 miliardi di dollari nel prossimo decennio per la costruzione di 8 impianti di produzione di microchip. Un’opportunità troppo ghiotta per Bruxelles, che mira a raddoppiare la sua capacità fabbricazione entro il 2030 per sganciarsi definitivamente dall’Asia, da cui è dipendente. Non che il piano fosse in discussione, ma una sentenza simile può alleggerire di tanto la tensione.
Semmai i problemi saranno interni all’Unione, con la Germania che sembrerebbe la favorita ad ospitare le strutture ai danni dell’Italia, che si era fatta avanti con il governo Draghi. Nel festeggiare l’esito della sentenza, il consigliere generale di Intel, Steve Rodgers, ha confermato come “l’industria dei semiconduttori non è mai stata così competitiva come oggi e non vediamo l’ora di continuare a investire e crescere in Europa”. A prevalere è quindi l’ottimismo.
L’altro aspetto, meno roseo per Bruxelles, riguarda invece la diatriba sul Digital Markets Act (Dma) con Washington, che si lamenta degli standard a discapito delle sole aziende statunitensi e chiede di rivederli con urgenza (ma non solo, come emerge dalla lettera inviata a ai funzionari europei). La lotta europea alle Big tech – per lo più americane – potrebbe dunque aver il suo punto di svolta proprio con una sentenza proveniente dall’Ue. Un paradosso, che costringe il commissario Vestager a pensare alle conseguenze che questa comporterà e, forse, a rivedere la sua strategia.