Il Dipartimento della Difesa potrebbe presentare nella prossima settimana un piano per l’accumulo di riserve strategiche di metalli cruciali per l’industria della difesa, e non solo. L’obiettivo: ridurre la dipendenza dalla Cina. Ma la filiera è complessa… L’analisi di Alberto Prina Cerai
Litio, terre rare e cobalto. Sono questi i metalli rari che, secondo fonti non rivelate dall’agenzia Reuters, il Pentagono starebbe pensando di includere in un piano di stoccaggio strategico. L’obiettivo sembra essere quello di assicurarsi le quantità necessarie per soddisfare le necessità dell’industria della Difesa, quanto quello di incoraggiare il reshoring di fasi produttive legate alle tecnologie chiave per la decarbonizzazione, come batterie e magneti.
Come riporta l’ultimo rapporto dello Us Geological Survey, che di recente ha anche proposto di aggiornare la lista di materiali critici per l’economia statunitense, gli Stati Uniti sono dipendenti per importazioni nette dall’estero per più del 90% per metalli e composti di terre rare (principalmente Cina, Estonia, Malesia e Giappone), per il 76% da Norvegia, Canada, Giappone e Finlandia per il cobalto, e per circa il 25% per il litio da Argentina, Cile, Cina e Russia. Sono cifre, tuttavia, che devono essere maneggiate con cautela, dal momento che non sono esaustive e non tengono conto di tutti i prodotti importati che contengono, al loro interno, composti e semilavorati.
La pressione sul Pentagono per l’approvazione di questa misura è piuttosto importante. Nelle scorse settimane, inoltre, era trapelata la notizia che il Dipartimento della Difesa stesse pensando di imporre ai contractor e ai fornitori dell’esercito statunitense il divieto di utilizzare materiali e composti di terre rare importati dalla Cina. Un’iniziativa che dimostra la crescente preoccupazione per la possibilità che Pechino possa utilizzare, come spesso paventato dai media, le terre rare – e, più nello specifico, i magneti utilizzati nei sistemi d’armamento – come arma di ritorsione geopolitica in un contesto di crescente weaponization delle catene del valore, come dimostra la continua pressione sull’industria dei semiconduttori.
I magneti di terre rare, infatti, sono spesso utilizzati nei jet di ultima generazione, gli F-35, fabbricati da Lockheed Martin Corporation – finita nel turbinio della guerra commerciale nel corso del 2020 – e i missili di precisione teleguidati di Raytheon Technologies. Il litio inoltre è fondamentale per la fabbricazione delle batterie per i veicoli elettrici della flotta civile, ma anche per i piani di conversione elettrica dei mezzi non tattici dell’esercito.
L’ultima volta che il Pentagono era intervenuto sulle sue riserve di terre rare era il 1998, quando la maggior parte dello stock venne venduto sul mercato. Un’epoca, tra l’altro, caratterizzata da una delocalizzazione selvaggia di asset industriali che oggi risultano strategici, come appunto i magneti. Alla base vi era l’idea di esportare il degrado ambientale e di ridurre i costi di produzione: un combinato disposto che finì per nutrire la politica industriale di Pechino che oggi controlla l’intera catena del valore. Una realtà che oggi sembra voler essere messa in discussione per ragioni di sicurezza.
In questo senso, è evidente la continuità tra l’amministrazione Biden e quella precedente. Dopo aver siglato l’ordine esecutivo sull’emergenza nazionale per i metalli critici, la Presidenza Trump aveva tracciato un solco a partire dal 2017 con la pubblicazione della strategia nazionale del Dipartimento del Commercio. Si tratta di un dossier bipartisan, considerando che la questione è ritenuta essenziale per la sicurezza nazionale. Anche il rapporto sulle filiere critiche pubblicato lo scorso giugno, su iniziativa di Joe Biden, ha parlato chiaro: sul lato dell’offerta, gli USA devono investire in progetti minerari mirati, lavorare con gli alleati e i partner internazionali per espandere la produzione globale, aumentare le forniture e qualora necessario ricorrere al Defense Production Act per incentivare le industrie domestiche lungo la filiera.
Sul lato della domanda, il piano infrastrutturale da 1,2 trilioni di dollari approvato quest’estate ha destinato significative risorse per scalare la filiera, con 6 miliardi a supporto di strutture di raffinazione per i battery metals e 140 milioni di dollari sotto la gestione del Dipartimento dell’Energia per progetti pilota nella separazione di ossidi di terre rare. Una proposta legislativa depositata al Congresso – il Restoring Essential Energy and Security Holdings Onshore for Rare Earths (REEShore) Act – è stata di recente introdotta dai senatori Cotton (repubblicano) e Kelly (democratico). Anche se focalizzata sui metalli di terre rare essenziali per le tecnologie della difesa (come la lega di neodimio-praseodimio, NdPr, utilizzata per la fabbricazione dei magneti), la proposta non a caso richiede al Pentagono e al Dipartimento degli Interni di creare una riserva strategica e di certificare l’origine dei materiali.
Attualmente solo Mp Materials, proprietaria della miniera californiana di Mountain Pass, è attiva sul lato dell’estrazione ma è vincolata ad un accordo con la cinese Shenghe Resources – che è sul punto di acquisire il 19,9% delle quote azionarie di un promettente progetto australiano – per la trasformazione del suo output in materiale lavorato. L’australiana Lynas Corporation si è vista inoltre riconoscere un finanziamento dal Pentagono da 30 milioni di dollari per installare impianti di separazione e raffinazione in Texas. La US International Development Finance Corporation ha investito circa 25 milioni di dollari nell’azienda TechMet, una compagnia che produce metalli per i veicoli elettrici, i sistemi di accumulo e generazione di energia rinnovabile nel 2020, ancora troppo poco rispetto al crescere della domanda americana di materie prime critiche.
Nonostante queste iniziative, la Cina rimane e probabilmente rimarrà ancora per molti anni l’unico mercato di sbocco per il materiale grezzo. Ad oggi, le industrie cinesi raffinano il 60% del litio, l’80% del cobalto, e l’85% delle terre rare estratte a livello globale. Ed è in questo particolare segmento della filiera che si concentra il vantaggio di Pechino: un sistema industriale che ha beneficiato di numerosi sussidi statali, credito fiscale e legislazioni particolarmente favorevoli, oltre ad una quasi inesistente monitoraggio sugli standard ambientali, sociali e di governance.
La mossa del Pentagono, dunque, è l’ennesima tessera di un puzzle estremamente difficile da completare. Da una parte, agiscono asimmetrie di mercato che rendono le attività industriali (dalle miniere ai magneti) soggetti alla fortissima competizione dei player cinesi. Secondo Tim Worstall sul Washington Examiner, l’industria militare rappresenterebbe solo il 5% del consumo nazionale di metalli e composti di terre rare. Dall’altra, sarà da valutare come reagirà il mercato stesso una volta che il Dipartimento della Difesa inizierà lo stockpiling. I prezzi delle terre rare sono già ai massimi storici. Sorridono gli investitori, che guardano con sempre più interesse a questo nuovo “superciclo” delle materie prime. Un po’ meno i consumatori finali, dai produttori di auto elettriche ai giganti dell’eolico.
In generale, la percezione della tenuta della base industriale americana è peggiorata, come rivela l’ultimo rapporto della National Defense Industrial Association (Ndia). Nel caso delle materie prime e delle terre rare in particolare, definita “un’area di preoccupazione”, le industrie coinvolte sembrano tuttavia percepire miglioramenti.