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La Cina a corto di Pil gioca la carta fiscale

Il governo approva una mannaia fiscale che può valere 400 miliardi di minori imposte sui profitti delle imprese che investono nel Dragone. L’economista Forchielli a Formiche.net: il Pil non tira, per questo Pechino le prova tutte per rimettersi in pari con la crescita. Le sanzioni alla Russia? I cinesi le temono più di ogni altra cosa

Forse sarà la paura di rimanere invischiata nella spirale delle sanzioni imposte alla Russia. O più semplicemente il timore che il collasso del mattone e del settore tech possa finire con il dissanguare l’economia. Fatto sta che a Pechino si sono messi in testa di tornare ad attrarre capitali, dopo due anni di fughe incontrollate di investitori, fuggiti a gambe levate dalla repressione del governo e da un debito dalle gambe troppo molli. E poi c’è un Pil da rimettere in carreggiata, visto che per il 2022 il Dragone non andrà oltre il 5,5%, valore ai minimi da 30 anni e decisamente rivisto rispetto alle stime di pochi mesi fa.

Insomma, il panico deve aver cominciato a serpeggiare tra i corridoi del Partito comunista cinese. E il modo migliore per cominciare è creare un paradiso fiscale, o qualcosa di molto simile. In altre parole, abbattere 400 miliardi di imposte alle società che decidono di investire nell’ex Celeste Impero. In una riunione del Consiglio di Stato presieduta dal premier, Li Keqiang, su mandato di Xi Jinping, il governo ha annunciato 2.500 miliardi di yuan (393,3 miliardi di dollari) di tagli alle tasse.

D’altronde, al termine del Congresso nazionale del popolo dello scorso 11 marzo, lo stesso Li Keqiang aveva definito i tagli alle tasse il modo migliore per stimolare la crescita, paragonandoli a “fertilizzanti applicati direttamente alle radici” dell’economia. “Gli sconti fiscali sembrano riduzioni ma in realtà sono un’aggiunta. Oggi dai indietro, domani ottieni di più in cambio”. La sforbiciata, più un colpo di cesoia forse, ha scritto l’agenzia Xinhua interesserà in particolare i profitti delle imprese che fanno business nel Dragone.

Non è finita. C’è anche il fronte delle Borse. Le autorità di Shenzhen, terza piazza finanziaria cinese dopo Shanghai e Hong Kong, hanno infatti reso noto di voler rinunciare alle tariffe di quotazione iniziale e annuali, oltre che a quelle relative al servizio di voto online degli azionisti per tutto il 2022, basandosi su una precedente decisione di esentare da tali costi le aziende quotate in Shaanxi, Henan e Tianjin. L’annuncio è giunto a seguito delle dichiarazioni del 17 marzo delle Borse di Shanghai e Pechino relative a simili esenzioni per le imprese quotate in Shenzhen, Mongolia Interna, Shandong, Jilin e Shanghai.

Attenzione però, perché meno tasse vuol dire anche meno entrate e con un Pil sottotono è facile fare debito. Cosa di cui la Cina non ha assolutamente bisogno in questo momento. Secondo Bloomberg, per esempio, “i tagli alle tasse possono alimentare debiti insostenibili e spesso portano a investimenti dispendiosi e poco efficaci”. Il rischio, insomma, è di aumentare ulteriormente il disavanzo e dunque il debito.

Formiche.net ha chiesto un parere all’economista Alberto Forchielli, grande esperto di Cina e dintorni. “La Cina cresce poco, o meglio non cresce come dovrebbe. Per questo tagliare le tasse anche alle aziende domestiche va letto in questo senso. Si tratta, chiaramente, di una mossa per rilanciare l’economia. Non penso c’entri tanto il discorso della fuga dei capitali, quanto invece ridare fiato a un’economia che non tira come dovrebbe”, spiega.

E le sanzioni alla Russia? Per Forchielli non ci sono dubbi “Pechino le teme e le teme più di un default russo. Perché quello che spaventa un’impresa cinese è l’estensione della sanzione, che colpisce la Russia e dunque le aziende legate ad essa. Altro che fallimento, la vera paura dei cinesi è quella di esser travolti dalle sanzioni. Pensate a cosa potrebbe accadere al settore immobiliare, già barcollante di suo”.

 

 

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